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Sergio Mattarella, il piano per il Quirinale: ecco perché vuole Mario Draghi per la successione

Alessandro Giuli
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Sergio Mattarella sta predisponendo una successione discreta e ordinata per il Quirinale. Che non abbia voglia di entrare nel tunnel della rielezione lo si sa già da tempo - altro discorso è se alla fine il quadro politico dovesse costringerlo a continuare nel suo servizio alla Patria - così come è noto che il prescelto, nello schema che gli è caro e congeniale, dovrebbe essere Mario Draghi. Va da sé che il presidente della Repubblica è lontanissimo da qualsiasi tentazione di esondare dalle prerogative che il proprio ruolo gli assegna, compresa la cosiddetta moral suasion in virtù della quale il predecessore Giorgio Napolitano ha gestito da protagonista indiscusso una delle più acute crisi istituzionali repubblicane.

Cionondimeno, bisogna ricordarsi che nel suo settennato Mattarella ha dovuto affrontare qualcosa di ancora più drammatico: uno stallo post elettorale al quale sono seguiti tre governi, due dei quali alle prese con la feroce pandemia di Coronavirus. L'esito è sotto gli occhi di tutti: un perdurante stato d'emergenza che ha costretto il Colle a convalidare una forma di legislazione per decreto commisurata all'enormità della circostanza (i Dpcm di Giuseppe Conte, per capirci) e la scelta di affidare l'Italia a una figura di primissima grandezza internazionale come l'ex banchiere centrale europeo, sorretto da una larga quanto conflittuale maggioranza. Chi conosca da vicino Draghi sa che l'happy ending che immagina per sé è appunto il Quirinale, l'anno prossimo.

 

 

Dopotutto, mentre il capo dello Stato in carica va cercando casa a Roma come un privato cittadino e lascia che il suo consigliere giuridico Daniele Cabras si diriga verso il Consiglio di Stato, Draghi sta imprimendo un'accelerazione formidabile al piano di vaccinazione (di qui la sua fermezza non negoziabile sul Green Pass) in vista di un ritorno alla normalità post virale confortato dai riscontri epidemiologici e che passa necessariamente per una legge di stabilità che incardini in modo pressoché irreversibile i requisiti economici e finanziari sui quali si basa il Pnrr. In altre parole, siamo al cospetto di un disegno complessivo secondo il quale la Repubblica deve uscire senza scosse dallo stato d'eccezione per recuperare i fondamentali di una dialettica parlamentare che preluderà allo scioglimento delle Camere previsto per il 2023.

HAPPY ENDING
Restano naturalmente sul campo diverse incognite. A cominciare dalle geometrie variabili dei partiti e dei gruppi d'interesse che pongono sullo scacchiere quirinalizio pezzi grossi come Marta Cartabia, Romano Prodi o Giuliano Amato, oltre al sempreverde Silvio Berlusconi e ad altre (poche) riserve repubblicane di centrodestra. Ad arricchire il paesaggio c'è anche l'autoproclamato partito di Draghi che, come dimostra la recente sortita di Carlo Calenda, vorrebbe costruire per lui una sorta di premiership illimitata. Staremo a vedere. Di là dal totonomi, nel percorso istituzionale tracciato dal Colle s'indovina un tratto distintivo obbligato riassumibile in due parole: pacificazione nazionale. Vuoi perché non è mai desiderabile al Quirinale una figura di rottura prodotta da una cordata "di parte", vuoi perché i recenti fatti di cronaca politica hanno innescato una pericolosa deriva in una campagna elettorale per le amministrative dominata da un anacronistico revival di tensioni ideologiche e conflitti che richiamano il peggior Novecento.

 

 

Ai più acuti osservatori non è sfuggito come Mattarella, di fronte alle violenze squadriste contro la sede della Cgil, abbia manifestato la massima condanna senza indulgere ad alcuna lettura che potesse avallare una qualche forma di debolezza da parte dello Stato: fermo restando il «forte turbamento», il presidente della Repubblica ha escluso ogni «preoccupazione» aggiungendo che «si è trattato di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica». Come a dire che sia la cosa pubblica sia il corpo civico della nazione sono ben saldi nel respingere l'aggressione e assieme a essa ogni sopravvalutazione allarmistica della recrudescenza neofascista. Una autentica lezione di stile, e al tempo stesso un buon incoraggiamento per il ceto partitico e parlamentare dal quale verrà fuori il nome del prossimo inquilino quirinalizio. Da ultimo. Nel novero dei più ascoltati consiglieri di Mattarella figura Giovanni Grasso (addetto a Stampa e Comunicazione), autore di un romanzo storico appena uscito per Rizzoli (Icaro, il volo su Roma) e dedicato a Lauro De Bosis, poeta e letterato antifascista, valido grecista e traduttore del Ramo d'oro di James. G. Frazer, animato da un vitalismo eroico (dannunziano, si direbbe) che lo portò alla morte in un volo fatale da lui compiuto in nome della libertà.

 

 

ISPIRANDOSI A DE BOSIS
Pochi ricordano che l'associazione clandestina fondata da De Bosis per opporsi al mussolinismo si chiamava "Alleanza nazionale per la libertà" e che la famiglia De Bosis ebbe rapporti di famigliarità con il principe Leone Caetani, insigne islamista espatriato a causa del regime, teorico di una religione civile nazionale nella quale l'intero arco parlamentare italiano non dovrebbe faticare a riconoscersi. Anche questo, se pur sia presto per stilare bilanci, è un prezioso lascito del settennato in scadenza.

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