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I mali del Pd sono colpa di Berlinguer: partito incapace di misurarsi con la modernità

Francesco Carella
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Il centenario della nascita - nacque il 25 maggio 1922 - può essere l’occasione per riflettere intorno alla figura di Enrico Berlinguer e al ruoloe ffettivo che egli svolse nella storia politica italiana,mandando in soffittai toni agiografici utilizzati per decenni dai suoi eredi. Per questi ultimi, Berlinguer fu il leader che ebbe il coraggio di caricarsi della responsabilità di separare il destino del Pci dal comunismo sovietico. Tant’è che molti di loro negheranno perfino di essere stati comunisti, per il semplice fatto che tale non era più da molto tempo il partito in cui erano iscritti. Walter Veltroni, addirittura, si è spinto a dichiarare di non essere mai stato comunista, ma solo «un militante del partito di Berlinguer». Nessuno di quella generazione ha pensato che,alterando in modo così palese la storia del suo partito, alla fine a farne le spese sarebbe stata la stessa memoria dell’ex segretario di Botteghe Oscure. COMUNISTA

 

 

AUTENTICO Enrico Berlinguer, nonostante alcuni passaggi critici - ancorché incerti - sul terreno dei rapporti con Mosca, rimase in punta di dottrina un comunista autentico. Non ripudiò mai l’Unione Sovietica, né accettò revisioni che potessero avvicinare il suo partito alle grandi famiglie riformiste europee. Egli non smise mai di essere «il capo di una sinistra conservatrice avversa a quella socialdemocratica e liberale». Era così graniti camente legato a tali idee che si convinse di potere riformare il comunismo (fu l’illusione dell’eurocomunismo) senza arretrare di un millimetro dalla matrice identitaria. Come scrive lo storico Silvio Pons - in “Berlinguer e la fine del comunismo” - «il nesso tra identità e politica rimase irrisolto e autoreferenziale, sospeso tra la difesa del recinto dell’appartenenza comunista e l’anatema contro ogni omologazione alle socialdemocrazie, con la conseguenza che l’imperativo identitario consolidò le peculiarità, ma anche le anomalie, del comunismo italiano e costituì un impedimento permanente per la realizzazione degli obiettivi politici principali». Infatti,all’indomani del fallimento del compromesso storico, si preferì la trincea dell’etica piuttosto che fare i conti con ciò che si muoveva nella società italiana, a partire dai processi di modernizzazione che stavano mutando profondamente il panorama politico e civile del Paese. In tal senso, vengono ripresi temi già al centro del XIV congresso del Pci - era il 1975 - quando Berlinguer esalta «i successi economici dei Paesi socialisti, la capacità di pianificare l’economia nell’interesse della collettività così da determinare la crescita progressiva del benessere sociale». Per concludere che è «universalmente riconosciuto che in quei Paesi esiste un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche sono sempre più colpite da un decadimento di idealità, di valori e da processi sempre più ampi di corruzione e disgregazione». Il vuoto strategico in cui si trova il partito alla fine degli anni’70 viene così colmato dalla triade -moralismo, populismo, giustizialismo - in nome della quale diviene centrale «l’alterità comunista» da contrapporre «al degrado sempre più marcato della politica e della società italiana».

 

 

IL “TRADITORE” CRAXI «Con Berlinguer - scrive lo storico Piero Craveri in “La democrazia incompiuta” - la diversità comunista diventa un assioma che non consente l’elaborazione di strategie politiche percorribili, essendoci un totale rifiuto di porre sullo stesso piano le ragioni ideali deglialtri».A tal proposito, basti solo ricordare le reazioni scomposte di Botteghe Oscure allorquando Bettino Craxi, partendo dai nodi mai sciolti della sinistra italiana,apre un’intensa stagione di riflessione politico-culturale, ponendo al centro il rapporto fra libertà e socialismo. Da quel momento in poi, il leader del Psi diventa «un avventuriero, un figuro moralmentemiserevolee squallido, un abile maneggione e ricattatore». Infine, un richiamo particolare merita il lungo filone dell’antiamericanismo che non viene abbandonato nemmeno dopo che Berlinguer confida a Giampaolo Pansa - in un’intervista nel giugno 1976 sul “Corriere della Sera” - di «sentirsi più sicuro di qua», ovvero nel Patto Atlantico, invece che nel Patto diVarsavia. Salvo schierarsi, di lì a poco, contro l’installazione dei Pershing e dei Cruise in risposta ai missili SS-20 sovietici puntati contro le città europee. La convinzione che «l’imperialismo statunitense fosse la causa prima di tutti imali» rimase immutata e continuò a condizionare ogni scelta politica del Pci di Enrico Berlinguer. Con strascichi presenti ancora oggi.

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