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Matteo Salvini, dopo il "diktat" della Meloni cresce la fronda nella Lega: "Fuori dal governo"

Salvatore Dama
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Minimizzare il risultato elettorale e referendario. Sottolineare i (pochi) segnali positivi. E rimandare i conti- interni ed esterni - a dopo i ballottaggi. Perché ci sono ancora delle città contendibili che potrebbero rendere meno amaro il bilancio del turno amministrativo. E' chiaro però che Matteo Salvini ha poco da sorridere. Superata a destra da Fratelli d'Italia, la Lega perde lo scettro del primo partito della coalizione, che vale aritmeticamente la leadership della coalizione. Finisce in soffitta anche il progetto di lista unica con Forza Italia perché, se l'obiettivo era quello di arginare la crescita di Giorgia Meloni, la somma dei due partiti rischia di non bastare più.

DIBATTITO INTERNO - Il Carroccio perde voti. Tanti rispetto alle elezioni europee del 2019, ma il saldo della gestione Salvini è sempre in attivo: quanto aveva preso in mano il partito, ricordano i suoi, era al tre per cento. Questo non basta a frenare il dibattito interno. Con Giancarlo Giorgetti, alla testa dell'ala governista, che manco si è presentato al consiglio federale di lunedì. "Motivi personali", non politici, si è affrettato a chiarire Matteo. Però prima o poi lo scontro interno è destinato a venire allo scoperto. Problemi di prospettiva, anzitutto: i salviniani sono stufi di stare al governo, mentre l'ala moderata vuole continuare a tenere un piede dentro l'esecutivo di Mario Draghi fino a fine legislatura. Sì, ma a che prezzo? FdI lucra (elettoralmente) sul fatto di essere l'unico partito di opposizione. E la Lega stenta a raccogliere i frutti dell'essere in maggioranza.

 

 

«Stare al governo col Pd è impegnativo», spiega Salvini. E sicuramente le cose non miglioreranno nell'ultimo scampolo di legislatura. Che fare? C'è chi suggerisce un "Papeete due". Replicando il rocambolesco addio ferragostano del 2019, che portò alla fine della coalizione gialloverde. Ma non alla conclusione anticipata della legislatura, come sperava il Capitano. Stavolta sbattere la porta in faccia a Draghi è più difficile. Però manco è facile andare avanti così. «Fosse per me», è stato durissimo l'altra sera Lorenzo Fontana parlando su Rete 4, «io sono abbastanza stanco». L'obiettivo di questo governo era di «risolvere i problemi economici dopo la pandemia». Ma le cose non stanno andando esattamente così, ammette il braccio destro di Salvini: «La Lega risponde all"elettorato, non a qualcun altro. E non vedo che i nostri elettori hanno un riscontro positivo». Insomma, nel Carroccio il discorso sull'addio a Draghi è maturo: «Se non siamo al governo per incidere, allora tanto vale che non ci stiamo. Io non voglio tornare sul mio territorio dovendo vergognarmi». Il caso è nelle mani di Salvini, spiega Fontana. Se in autunno l'esecutivo non cambia passo, «faremo le nostre scelte».

 

 

Quali? La strada è stretta e non prevede grandi spazi di manovra. Ci sono poche opzioni. Fare cadere il governo con una crisi economica e una guerra in corso? Potrebbe essere controproducente. Passare dalla presenza organica all'appoggio esterno: è una soluzione, ma Matteo, nel caso, dovrebbe fare i conti con Giorgetti e con quelli, nella Lega, che imputano gli insuccessi elettorali agli scivoloni del segretario - ultimo, il non-viaggio in Russia- più che al sostegno a Draghi. Lui? Salvini per il momento si limita a spedire all'indirizzo di Palazzo Chigi cose che non sembrano ancora degli ultimatum. Sulle tasse, per esempio: «La pace fiscale è un dovere e mi chiedo perché il governo non abbia ancora affrontato e risolto questo problema che riguarda 16 milioni di italiani».

LE SCELTE - Il Pd non vuole, ma l'abbraccio con i dem rischia di essere micidiale, se portato fino a ridosso del voto 2023. Nel frattempo Matteo minimizza la concorrenza nel centrodestra («Sono felice se qualcuno cresce, nel senso che per vincere le Politiche tutta la coalizione deve prendere dei voti») e minimizza il calo nelle urne: «La competizione è con la sinistra, non interna. Analizzeremo il voto città per città: se ci sarà da migliorare, miglioreremo». Il Capitano deve pure rivedere la strategia di allargamento al Sud. E' ancora il caso di scommettere sul voto dei non-padani? A Palermo, Messina e Catanzaro - dicono i leghisti - la lista "Prima l'Italia" non è andata male. Ma forse non basta. 

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