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Nicola Piepoli, l'allarme: "Chi può prendere la pistola e sparare"

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Fausto Carioti
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Esperto di sondaggi e dunque nel conoscere l'umore degli italiani, autore di una serie infinita di saggi e studi sull'argomento: Nicola Piepoli ormai è un antropologo a tutto tondo. Adesso fiuta il vento e avverte: attenti all'autunno, alla protesta anti-sistema che monta, perché a qualcuno potrebbe venire voglia di usare una pistola. Corsi e ricorsi, mezzo secolo dopo gli anni di piombo.

Dottor Piepoli, esiste ancora un elettorato di centrodestra in Italia? O abbiamo gli elettori di Fdi, Lega e Forza Italia, per i quali la fedeltà al proprio partito conta più di quella alla coalizione, al punto che non votano i candidati degli altri partiti ai ballottaggi?
«Destra e sinistra sono categorie mentali di base, che risalgono a prima dell'Ottocento. Nel parlamento inglese, nel 1688, dunque all'inizio della democrazia, i parlamentari erano divisi tra progressisti, borghesi e forze della conservazione, ossia i nobili. Ci si è evoluti in questa direzione, considerando la parte sinistra dell'aula come parte abitata dal popolo, e quella di destra abitata dalla nobiltà. Non credo che questo schema sia cambiato la domenica dei ballottaggi».

 

 

Allora come spiega l'assenza di tanti elettori di destra dai seggi?
«Non considererei una sconfitta della destra il fatto che molti suoi elettori non siano andati a votare. Anche a sinistra è accaduto qualcosa di simile. È una disaffezione derivante dalla mancata soluzione dei problemi da parte del governo in carica».

Sta dicendo che l'astensione è colpa di Mario Draghi?
«Dico che la scontentezza viene a galla nei momenti di crisi vera, quando emergono archetipi come la fame e la guerra. Si pensa prima alla pagnotta e ai giochi: panem et circenses, come diceva l'imperatore Claudio, che non era l'ultimo venuto. Con la distribuzione dei pani e dei giochi si controllava il popolo nel I secolo dopo Cristo e lo stesso avviene nel XXI. Adesso non ci sono bei giochi, però. E soprattutto manca il pane».

I litigi trai leader aumentano la disaffezione tra gli elettori?
«Sì. Siamo noi, uomini e donne, che creiamo i conflitti. Li creiamo nelle famiglie, nelle aziende e nella vita sociale. E per risolverli nella vita sociale ci sono le elezioni, tramite le quali demandiamo la soluzione agli altri. Ma quando questi altri non riescono a risolvere i nostri conflitti, perché sono incapaci a risolvere i loro, generano scontentezza negli elettori. I quali reagiscono scegliendo l'astensione».

È un fenomeno che vedremo anche alle elezioni politiche del 2023?
«Credo proprio di sì. È un fenomeno che ormai riguarda non solo la destra e la sinistra, ma tutte le democrazie europee ed americane».

L'altra volta non fu così. Qualunque cosa si pensi del movimento Cinque Stelle, nel 2018 ebbe un ruolo importante nell'arginare l'astensione.
«Sì. Una delle ragioni per cui il M5S sfondò è che gli italiani pensavano che avrebbe risolto i loro problemi pratici. Invece non è successo. Così si sono disamorati dei Cinque Stelle anche quelli che li avevano votati».

Nel 2018 furono il primo partito, col 33% dei suffragi. Dove andranno quei voti nel 2023?
«Molti degli elettori che li votarono si asterranno. Quel 33% si potrebbe dividere in tre grandi aree: un 10% che voterà per il M5S o un altro partito della coalizione di sinistra, un 10% che voterà per un partito di destra, il resto che non andrà a votare».

Resteranno più elettori con Giuseppe Conte o con Luigi Di Maio?
«Dipende da quello che faranno i due da qui ad allora. Mi sembra che Di Maio sia partito meglio, mostrando una maggiore capacità di aggregare. Conte non è un aggregatore nato, Di Maio sì, e questa mi pare la sua arte vincente».

Si vocifera di un'intesa tra Di Maio e Beppe Sala. Cosa c'azzecca il ragazzo irpino col sindaco di Milano? Non rischiano, insieme, di prendere meno voti di quanti ne avrebbero correndo da soli?
«È vero, vedo un paradosso nella loro possibile alleanza, ma anche i paradossi sono votabili. Gli stessi voti presi dal M5S quattro anni fa furono un paradosso: non è spiegabile razionalmente, nei collegi uninominali, il travaso di voti che si verificò dalla sinistra ai Cinque Stelle».

 

 

Il suo istituto ha fotografato gli elettori italiani dopo le amministrative e la scissione del M5S. Cosa è cambiato rispetto a un mese fa?
«La situazione è molto simile a quella di un mese fa, perché il trend delle elezioni amministrative è fondamentalmente diverso da quello delle politiche. Quando voto alle amministrative, la mia intenzione è avere un buon sindaco. L'astensione che si è vista è derivata anche dal fatto che molti candidati non erano accettabili da tutti gli elettori. Niente a che vedere, per capirsi, con i nomi che furono candidati nelle grandi città nel 1993: quelli rappresentavano folle, erano personalità molto forti. Leoluca Orlando era davvero il sindaco nel quale si identificava Palermo...».

Nulla è dunque compromesso per il centrodestra, in vista delle elezioni del prossimo anno?
«Assolutamente no. Nulla è cambiato per il centrodestra e nulla è cambiato per il centrosinistra. Per il centrodestra, tutto dipende da come sa aggregarsi. Se i suoi leader lo fanno dimostrando amicizia tra loro, e riescono a comunicare questo senso di amicizia agli elettori, non vincono: stravincono. Dal punto di vista delle intenzioni di voto, sommati, i loro partiti superano il 50%. Se alle ultime elezioni comunali questo non è accaduto, è proprio perché non si sono presentati gli italiani come amici, ma come concorrenti tra loro».

Forza Italia, sorprendendo molti, si è avvicinata al 10% delle intenzioni di voto. Dove può arrivare?
«Silvio Berlusconi ha guadagnato punti. Non quanti gliene servirebbero per vincere come faceva un tempo, ma sufficienti a far capire agli elettori che può combattere. Credo che buona parte del merito vada ad Antonio Tajani, l'unico della sua squadra che in questi decenni è cresciuto davvero. Non basta questo, però, per far tornare Forza Italia vincente: occorre un'organizzazione combattente come fu all'epoca Publitalia '80. È ciò che oggi manca al Cavaliere: se l'avesse, stravincerebbe».

Molti partiti puntano a cavalcare il voto dagli "arrabbiati", quelli che in autunno pagheranno il prezzo più alto dell'inflazione e della crisi sociale. Saranno le elezioni delle forza anti-sistema?
«La protesta anti-sistema si manifesta con l'astensione, non col voto ai partiti estremisti. Attenzione, però: potrebbe ripetersi quello che avvenne negli anni di piombo. Tra l'astensione e prendere la pistola per uccidere o ferire qualcuno del "sistema", oppure farlo prigioniero, il passo è breve. Specialmente se c'è miseria che avanza».

 

 

Sente aria di rivolta di massa, addirittura?
«No, ma bastano poche frange marginali. Quelli che negli anni di piombo scelsero di sparare non erano più di mille: una cifra ridicola, sui milioni e milioni di italiani. Eppure colpirono il Paese al cuore».

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