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Luigi Di Maio e "Grande Centro"? La priorità è sempre una: la poltrona

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Luigi Di Maio

Corrado Ocone
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Con la nascita del partito di Di Maio, il Grande Centro, già abbastanza affollato, si allarga ulteriormente. Di grande però quell'area politica sembra avere per ora solo le ambizioni dei tanti leader e leaderini che la compongono: i sondaggi continuano ad essere impietosi. Ancor più complicato è trovare un'identità comune ai vari gruppi. A ben vedere, l'unico collante è l'idea di tenere Draghi a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni. O, se proprio Draghi non volesse, di mettere su un governo che a quello attuale assomigli, cioè non caratterizzato in un senso o nell'altro ma volto solamente a tenere a galla la barca e ad evitare che l'Europa e i mercati si irritino e ci puniscano.

 

 

Qualcuno si spinge a paragonare questo centro, numeri e sistema elettorale a parte, a quello costituito un tempo dalla Democrazia Cristiana: fattore tutto sommato di stabilità e progresso per l'intero Paese per quasi un cinquantennio. Nulla di più lontano. Pur in un orizzonte di vincoli internazionali ben più forti degli attuali, la Dc rappresentava una sorta di camera di compensazione dei conflitti che laceravano già allora la società italiana. Un vero e proprio partito -Stato, trovavano ove espressione e mediazione le esigenze del Nord e quelle del Sud, quelle liberali e quelle solidaristiche, le forze del lavoro e quelle dell'industria, la destra (persino quella monarchica) e la sinistra.

 

 

Era il trionfo della politica, di interessi che confliggevano e che come per incanto si componevano nel ventre molle della Balena Bianca. La Dc non era un partito ideologico, ma non gli mancava certo quella gravitas che è propria della politica: in essa i processi maturavano lentamente, con le strade che approdavano a "convergenze" ma continuavano a seguire traiettorie diverse seppur "parallele". Il Grande Centro odierno avrebbe invece due caratteristiche: una psicologica, l'altra più sostanziale. La prima è fin troppo evidente, direi anche agli italiani ormai: in quel centro si sommerebbero solo tanti opportunismi, di chi alla politica chiede prima di tutto una sicumera per sé e per i suoi, e che perciò la affronta con una leggerezza tale che può portare a dire, senza che minimo travaglio interiore emerga, che quel che ieri era nero oggi è di un bianco splendente. Un po' come la scenetta in cui viene chiesto a Checco Zalone se è di centrodestra o centrosinistra e lui risponde che è di centro di dietro, cioè aspetta da una posizione comoda che i rapporti di forza si delineino per poi buttarsi dall'una parte o dall'altra.

 

 

Ma oltre a questo elemento antropologico, quel che desta più sostanziale preoccupazione è la scelta "draghiana". In sostanza, qui la politica non la si vorrebbe esaltare ma neutralizzare, metterla in scacco sotto il predominio di una Tecnica che detterebbe l'agenda perché «non ci sono alternative». Certo, le emergenze dell'Italia per cui era nato il governo Draghi non sono sparite, anzi altre se ne sono aggiunte. Ma ce ne è una più grave che proprio i politici non possono avallare: quell'emergenza democratica per cui in Italia non governa ormai da anni chi è democraticamente eletto ma forze impersonali o una melassa super partes. E se fosse proprio il ritorno alla politica, ad una conflittualità non solo mimata ma reale, la chiave per farci uscire un po' dalla secca in cui siamo? Per fortuna che ci sono i Draghi, ma le "riserve" della Repubblica non dovrebbero mai farsi titolari a tempo indeterminato. 

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