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Paolo Mieli rivela: "Ecco perché non è Letta il vero capo del Pd"

Pietro Senaldi
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Ho visto sul Corriere della Sera che ha avuto parole di sostegno per Letta...
«Stimo molto Letta ma il più sincero è Calenda, che la dice piatta ed è convinto che, anche se vince, il centrodestra dura sei mesi. Poi lo mandano a casa».

Lei concorda?
«Io penso che il centrodestra abbia maturato una buona capacità di muoversi e che possa durare, ma certo al massimo in due o tre anni proveranno a farlo saltare. Il gioco sarà il solito: si cavalcherà qualche tensione congiunturale, qualche istituzione terza ci metterà il proprio carico, verrà cooptato un drappello di parlamentari responsabili del centrodestra e il cambio di guardia è servito».

È per evitare questo che i leader del centrodestra hanno fatto delle liste blindatissime, spazio quasi solo ai fedelissimi?
«Non abbiamo sufficiente confidenza perché io le faccia i nomi, ma qualche profilo pronto al salto lo intravedo fin da ora. Nella destra manca totalmente il principio di lealtà. Ne abbiamo avuto evidenze clamorose nell'ultimo decennio».

Stiamo già parlando di un Draghi bis?
«Allo stato attuale c'è una possibilità su un miliardo che Draghi torni, e dico un miliardo per tenermi basso. Ho ascoltato bene il suo discorso, non mi sembra disponibile a precipitarsi per tirare fuori le castagne dal fuoco a chicchessia. Ha detto molto chiaramente che, chiunque vinca, può e deve governare e ci sono le condizioni perché lo faccia bene. Tornerà, come fece Ciampi, ma ci vorrà del tempo, e non sarà per fare il tappabuchi».

Per Paolo Mieli in Italia è partita «la campagna elettorale delle contraddizioni, un unicum mondiale». Parola di storico. Con la consueta ironia, il già due volte direttore del Corriere della Sera, del quale è oggi editorialista politico e culturale, si dice strabiliato che esista un blocco di politici e intellettuali che si battono perché il voto produca una situazione di stallo che induca a richiamare Draghi a Palazzo Chigi. «Non conosco una democrazia dove chi pensa di poter avere consenso non si batte nelle urne. Calenda e Renzi mi stanno simpatici, ma il loro piano Draghi è il punto debole del cosiddetto Terzo Polo. Lo ribadisco, Draghi non può tornare come soluzione di riserva».

Il punto è che anche il Pd non disdegna il piano...
«Questo fatto è figlio di un decennio drammatico. Il Pd dal 2011 si è abituato a governare anche se perde le elezioni, fatta salva l'eccezionale parentesi M5S-Lega, ed è una cosa che ha alterato la percezione della politica da parte dei leader della sinistra. Sono persuasi di poter sorvolare sul risultato delle urne. Complice un centrodestra piuttosto fragile, si sono suggestionati e pensano che, anche se vincono gli altri, poi loro li mandano a casa in cinque minuti. Stavolta non sarà così facile».

Anche lei quindi dà per perse le elezioni per il centrosinistra? 
«Tutt'altro. Non mi stupirei se, a sorpresa, vincesse il centrosinistra. Viviamo un'epoca in cui i sondaggi pesano poco, e quelli che girano sono vecchi di due o tre mesi, adattati alla bisogna con una verniciatina estiva».

La convince la campagna elettorale di Letta?
«Forse sarebbe stato meglio se il Pd fosse andato solo».

Qual è stato il suo errore?
«L'errore grave di tutti i capi del Pd è di non saper fare una scelta netta».

Cosa avrebbe dovuto fare invece?
«Aveva due strade. La prima era armare un fronte draghiano e mettersi a capo di un'area riformista. Sembrava cosa fatta con il patto con Calenda, poi ha mandato tutto all'aria sostenendo che per il Pd era vitale, anche a livello di relazioni internazionali, allearsi con i Verdi di Bonelli, il quale però aveva promesso a Fratoianni di fare fronte comune. Così il Pd si è caricato anche la sinistra più estrema, perdendo Calenda. Francamente, mi sembra una motivazione debole. Tutto questo bailamme solo per tenere Bonelli? Non ci credo».

A questo punto avrebbe fatto bene a non rompere con i grillini?
«Questa era la seconda strada, aprire a un'alleanza che includesse tutti gli avversari della destra, fino a Marco Rizzo e Gina Lollobrigida. Ma ovviamente allora avrebbe dovuto includere anche Renzi; e questo a ogni evidenza nel Pd era tabù».

Detta così, Letta si è inguaiato con le sue mani...
«Non con le sue mani. La realtà è che Letta nel Pd comanda per modo di dire. Io ho sempre presente la sua grande amicizia con Filippo Andreatta. Questo Pd gli corrisponde poco, perché comanda ancora un nucleo che ha le proprie radici culturali nella storia e negli ideali della rivoluzione d'ottobre».

Quindi antiamericani, nostalgici di Lenin e antisionisti in lista non sono un incidente?
«Chiunque conosca la base del Pd sa che essa, dopo aver creato la bad company dello stalinismo, continua sostanzialmente a ragionare come un tempo. I giovani che sono stati presentati a Letta per essere candidati come capilista non somigliano a quelli come Filippo Andreatta che lui frequentava a trent'anni ma a quelli dell'antica Federazione Giovanile Comunista. La sensibilità diffusa della sinistra alla fine è lì che va a parare».

Ma i nostaligici sono ancora una componente rilevante del Pd?
«Per me sì, sono una componente robusta e sostenuta da un mondo intellettuale molto vasto».

Il Pd perciò non diventerà mai un vero partito di sinistra moderno, sullo stile delle socialdemocrazie del Nord?
«L'Spd ha rotto vent'anni fa con la Linke ed è stato un passaggio definitivo. Il corpo del Pd mi ricorda quegli ebrei che nel Cinquecento si fingevano cristiani per scampare alle persecuzioni, ma restavano israeliti. Parliamo di maestri di dissimulazione, che si mettono un vestito che li rende formalmente adatti ai tempi. Possono anche decidere tatticamente di consegnarsi nelle mani di Renzi o di Letta per un giro, ma la loro natura non cambia».

Perciò Letta ha le settimane contate?
«Non è detto, dipende da come andranno le elezioni. Se ottiene un buon risultato, potrà andare avanti, specie se chi conta davvero si convincerà di averlo domato, come può essere accaduto in questi giorni».

Letta riuscirà ad ammodernare il Pd o è destinato a fallire come Renzi?
«In genere queste operazioni riescono meglio a chi la ditta considera come una propria espressione, per esempio Bersani, che dà garanzie in questo senso. Leader come Togliatti o Berlinguer potevano far accettare alla base ogni compromesso, perché erano ritenuti affidabili quando dicevano che per l'interesse superiore bisognava fare una cosa poco gradita. Letta parte da un'altra situazione. Guarda la sua presa di posizione sulla guerra in Ucraina: decisa, immediata, giusta, coraggiosa. È per questa scelta che lo ammiro. Lì ha dimostrato la stoffa del leader, ma il partito di fatto non lo ha seguito, perché permane l'antica diffidenza verso gli Stati Uniti. Come quella verso Israele».

Avrà il coraggio anche di lanciare la sfida per cambiare la natura petrosa del Pd?
«Io lo spero, e auspico che la vinca, cosa che però tendo a escludere».

Cosa accadrà in caso di fallimento del tentativo?
«Che il Pd tornerà a guardare a M5S, per fare insieme l'opposizione ed eventualmente tentare la spallata al governo».

Se non ce la fa, significa che il progetto di Calenda e Renzi è destinato a durare...
«Io penso sia destinato a durare comunque, compatibilmente ai caratteri dei due. Non vedo il Pd sulla via della rottura definitiva con ciò che c'è alla sua sinistra».

Gratta gratta, il passato torna sempre fuori...
«Tutto viene affrontato nel modo che non sia mai la volta buona per fare un'operazione definitiva, per correggere gli errori. Pensa anche a questa cosa qui del Pd romano...».

Inginocchiati o ti sparo?
«Certi personaggi sono macchiettistici, sembrano usciti da un film con Mario Brega. Oppure sono influenzati dalle serie tv come Suburra, da cui traggono il modo di parlare».

Eppure stiamo parlando dei vertici del Pd capitolino...
«Chiunque metta il naso dentro quel Pd ne esce orripilato. Zingaretti disse che il Pd romano gli faceva orrore, ma nessuno ha chiesto approfondimenti. Calenda e Renzi hanno ironizzato. Nessuno però che abbia detto che non se lo aspettava. Ricordi la Madia che parlava di associazioni a delinquere nel Pd romano? E i giudizi di Barca, Orfini, di tutti i commissari che si sono succeduti? Chissà che cosa hanno visto...».

Forse associazioni a delinquere?
«Non credo, e non credo neppure alla corruzione diffusa. Il fatto è che il Pd romano vive a stretto contatto con il Palazzo, da dove entra ed esce. È il partito più cinico che esista sulla faccia della terra».

Certe frasi a Milano non si sono ancora sentite...
«Al Nord non si usa quel linguaggio e anche al Sud i politici sono più raffinati, lo lasciano ad altri. Nel Pd romano invece certi toni al limite del buongusto sono parte di una consapevole esibizione di forza, come se fossero connaturati alla gestione del potere. È il loro modo di testimoniare pragmatismo e determinazione. Bisognerebbe stare più attenti alle forme e alla bilancia, nel peso delle parole e non soltanto...».

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