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Il sondaggio che abbatte Letta: ecco chi è pronto a farlo fuori subito

Pietro Senaldi
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Quarantatré morto che sbraita. Nella cabala napoletana la cifra è il 47 e il defunto non grida, parla. Tuttavia, quando in campo c'è Enrico Letta, le regole si sovvertono da sole. Non fosse così, il moderato già fondatore di Vedrò, think-tank sinistrorso alla camomilla, cresciuto alla scuola di Andreatta e nipote di Gianni, eminenza berlusconiana, non sarebbe il segretario di un Pd più a sinistra di quello che fu di Bersani. Stiamo parlando di un uomo alla guida di un partito che lo rappresenta come uno specchio deformante, e infatti lo ha trasformato in un mostro politico. Quarantatré è la percentuale di consensi che, se raggiunta dalla coalizione di centrodestra, secondo il segretario metterebbe a rischio la democrazia in Italia, perché attribuirebbe a Berlusconi, Meloni, Salvini, Lupi, Toti e compagnia un numero di seggi che consentirebbe loro di cambiare la Costituzione da soli. Che questo avvenga in base a una legge del Pd e che sia possibile perché previsto dalla Carta stessa, sono cose note ma sui cui il leader progressista preferisce soprassedere.

 

 


Prima della democrazia però, in caso di centrodestra al 43%, morirà Letta stesso. A ucciderlo non saranno i sicari di Putin e neppure il fantasma di Mussolini. I killer si chiamano Franceschini e Orlando. I due addebiteranno a Enrico ogni colpa della disfatta. D'altronde lui nel Pd è ritenuto un soggettone, un corpo estraneo, richiamato dall'esilio perché, stando all'estero, non si è compromesso con la malagestio dem e perché il suo predecessore, Zingaretti, aveva troppi guai per concorrere, come stanno rivelando ultimamente le cronache para-giudiziarie che riguardano i suoi più stretti collaboratori. Lo uccideranno, a Letta, e metteranno al suo posto il governatore dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. Si capisce dal fatto che, fino a un mese fa, i dem ne parlavano come di un fenomeno, e ora invece già cominciano a criticarlo ancora prima che si insedi. Ma avrà una visione nazionale? Non è che è un po' leghista? È un bravo amministratore e parla bene, occhio che si monta la testa e tenterà di farci fuori come provò Renzi... Loro, i capibastone piddini, dopo aver infarcito le liste del segretario di uomini che rispondono ai colonnelli di stanza ma non al generale di giornata, sono già passati oltre l'uomo di Vedrò, al quale per stare sereno non resta che chiudere gli occhi.

 

 


SOLO E INCATTIVITO
Strenuo, sempre più solitario e finale, Letta resiste e insegue il suo sogno di perdere da primo. I sondaggi più recenti però lo danno quattro punti dietro Fratelli d'Italia e il malcapitato rosica, si incattivisce, attacca a testa bassa Giorgia, la fascista, quella che è donna ma si è fatta uomo per vincere, affermano gli amici sinistri della carta stampata, gli unici che sono rimasti al segretario; imperdonabile, perché in politica i dem non amano i transgender. Non si rende conto, il leader Pd, che con questa mania della polarizzazione di fatto è stato lui il politico più insistente nell'indicare Giorgia per Palazzo Chigi; king maker, ma dell'avversario. Riavvolgiamo il nastro. La vulgata vuole che Letta abbia inseguito il sogno del campo largo della sinistra oltre ogni limite umano e si sia poi ritrovato da solo con il "suo" (molto per modo di dire) Pd a causa di un diabolico cocktail di circostanze avverse e scarsa attitudine alla strategia politica. D'altronde se, dopo essersi fatto scherzare come un bambino da Renzi, ha insegnato per sette anni all'Istituto degli Studi Politici di Parigi non è perché aveva vinto un concorso o era un professore di lignaggio internazionale, ma solo perché aveva delle ottime entrature presso la gauche au caviar; tecnicamente lo si può definire un raccomandato dalla politica.


Il segretario voleva l'alleanza elettorale con M5S, ma poi i grillini hanno votato contro Draghi e lui, da hombre vertical qual è, non ha potuto perdonarli. Anche perché causa della rottura è il termovalorizzatore di Roma, che Conte aveva detto non avrebbe mai fatto passare ma i dem hanno voluto assolutamente inserire nel decreto Aiuti, condannando così Draghi alla sfiducia. Scelta politica loro, e non del leader grillino. È il Pd che, per far gestire l'inceneritore al sindaco Gualtieri e al suo capo di gabinetto, quel Ruberti meglio conosciuto come «inginocchiati o ti sparo», hanno corso il rischio, perdendo, di mandare a casa il premier migliore di tutti, come ancora lo spaccia Letta. Dopo aver tagliato i ponti a sinistra, Enrico "stai sereno" ha siglato un patto con Calenda, inaffidabile quanto il Gatto e la Volpe di Pinocchio messi insieme. Comunque, anche in questo caso, l'interlocutore si è rivelato più coerente del capo dei dem. L'energumeno dei Parioli aveva chiarito che lo scopo dell'alleanza sarebbe stato creare un asse progressista moderato e per risposta Letta non solo ha imbarcato Speranza e Leu, usciti pochi anni fa dai dem perché troppo poco di sinistrai, ma ha pure imbarcato i comunisti di Fratoianni e i Verdi di Bonelli. Poi ha infarcito le liste di trinariciuti e trentenni anti-sionisti e filorussi che sembrano usciti da un collettivo studentesco degli anni '70. A questo punto i casi sono due.


Letta è il leader di coalizione più sprovveduto di tutti i tempi, essendo riuscito a dividere la sinistra non in due, ma in tre, cosa che generalmente accade dopo il voto e non prima.
Oppure quella del campo largo era tutta una balla e il segretario ha sempre pensato di presentarsi solo, allargando solo un po' il gioco alla sinistra borbottona, ideologica e prevedibile, quella di Fratoianni e non di M5S, per non perdere il voto dei radical chic e di qualche studente con l'eskimo fuori corso da quarant' anni, se non all'università alla scuola della vita. Propendiamo per la seconda ipotesi. Più o meno dev' essere andata così. All'inizio, Letta ha accarezzato genuinamente il sogno del campo largo, poi si è fatto due calcoli e si è spaventato. Ha pensato che il centrodestra fosse troppo avanti e che l'ammucchiata giallorossa non avrebbe avuto speranze di vittoria neppure con la formula "tutti insieme ancorché poco appassionatamente contro il pericolo nero". Ha intuito che il 26 settembre, all'indomani della sconfitta, lo avrebbero cacciato senza neppure l'sms renziano di sfottò e ha cambiato strategia. Ha immaginato che l'unica possibilità di prolungare la propria agonia sia riuscire a fare del Pd il primo partito italiano. A quel punto, ancorché sconfitto, non sarebbe immediatamente licenziabile.


LA CHIAVE DELL'INSUCCESSO
Con questa chiave si spiega tutto: l'intransigenza con Conte, al quale Letta non perdona di aver votato due volte contro Draghi, pur mostrando indulgenza verso Fratoianni, che si è espresso contro il governo 55 volte, il balletto con Calenda, al quale il leader dem imputa le colpe della rottura che invece sono solo sue, e l'inclusione nelle sue liste della sinistra poco moderata e di esponenti del Pd più delirante, del cui appoggio avrà bisogno come di un salvagente, per non affogare travolto dalla marea del centrodestra. Lo sforzo profuso è stato notevole, ma non consentirà al segretario di salvare la poltrona, e per questo potrà rimproverare solo se stesso. Per coprirsi le spalle dal fuoco amico, Letta non ha imboccato con decisione nessuna strada, a eccezione della criminalizzazione dell'avversario, ma anche le accuse di fascismo nei confronti della Meloni e di putinismo verso Salvini non sono farina del suo sacco bensì slogan mutuati dalla sinistra più becera e vetusta. Infatti non hanno pagato. Gli italiani nella stragrande maggioranza se ne fregano del pericolo nero, o meglio non lo vedono neppure, e hanno costretto il segretario a cambiare le parole d'ordine della campagna elettorale a ridosso del voto. Con l'inconveniente che quelle buone sono già tutte occupate e a Letta non resta che fare il verso al draghismo di Calenda e al reddito di cittadinanza Conte. Ma, a questo punto, sono molto più credibili gli originali. 

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