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La Cina gioca con il virus. E perde: Senaldi smaschera Pechino

Pietro Senaldi
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E se il problema del mondo nel prossimo futuro fosse, anziché la crescita irrefrenabile della Cina, il suo drammatico collasso? La gestione quantomeno bizzarra che il regime di Pechino ha fatto da tre anni a questa parte della pandemia potrebbe confermare la suggestiva tesi. I cinesi non sono mai stati trasparenti sul virus nato nella loro terra. Nel 2019 non lanciarono i dovuti allarmi, non dissero nulla di quello che sapevano e il loro comportamento fu alla base dell'impreparazione dell'Occidente nell'affrontare il Covid. Oggi, dopo una lunghissima stagione di chiusure che vedevano costrette per mesi in casa decine di milioni di persone al primo accenno di un focolaio, riaprono malgrado il contagio sia ai massimi storici nel Paese. Come mai?
 

 

LOCKDOWN SELVAGGI

Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto, bisogna partire dalla considerazione che i lockdown selvaggi furono ritenuti in un primo momento dal regime una necessità senza alternative, perché la situazione sanitaria cinese sconta un'arretratezza neppure immaginabile per un cittadino europeo. Le eterne quarantene furono la sola risposta possibile di fronte a una totale incapacità logistica e scientifica di affrontare il virus. Tant' è che, ancora oggi, solo il 50% della popolazione è vaccinata, per di più con un prodotto la cui efficacia è molto ridotta rispetto a Pfizer, Astrazeneca ma anche al russo Sputnik. Con il cinismo e il pragmatismo che lo contraddistinguono, il regime colse l'occasione per fare di necessità virtù.

 

 

 

 

Quando il mondo si fermò a causa della pandemia e gli ordinativi stranieri crollarono, Pechino canalizzò ogni energia sul rafforzamento delle infrastrutture interne, decisive per far uscire dalla povertà i 750 milioni di cinesi, metà della popolazione, che ancora vivono in ristrettezze. Con la scusa del Covid, vennero deportati milioni di lavoratori a decine di migliaia di chilometri da casa, tenuti a vivere e dormire in cantiere, come gli antichi schiavi delle Piramidi, perché non si contagiassero. Così fecero anche le aziende, in quello che è stato il più grande esperimento di controllo sociale dal Dopoguerra a oggi. Il giro di vite liberticida ha consentito al regime di superare una delle fasi più critiche politicamente dai tempi di Mao e della Banda dei Quattro. Non è stato facile per il leader Xi Jingping vincere il congresso, con l'economia che rallentava, il dissenso che cresceva e la pandemia che mostrava tutti i limiti del sistema.

 

 

 

La re-incoronazione è stata possibile solo come atto finale di uno scontro violentissimo interno al Partito Comunista che ha visto centinaia di migliaia di purghe di funzionari e lo scollamento tra potere centrale e territori, un tempo fondamentali per sostenere economicamente lo Stato, che i Comuni finanziavano comprandogli terre, e oggi impoveriti dall'accentramento e dalla relativa perdita di autonomia di cassa. Ma la brutta notizia è che il potere ne è uscito confermato però alquanto malconcio.

 

SCELTA OBBLIGATA

Le riaperture indiscriminate decise da Xi Jingping, con il ritorno del permesso di viaggiare all'estero, sono state una scelta necessitata quanto lo fu quella di chiudere. I lockdown hanno portato il Paese sull'orlo del disordine sociale, con proteste che nessun dirigente cinese aveva mai dovuto gestire finora. La fame di libertà è stata, come sempre capita, alimentata dalla fame vera, quella di cibo e denaro. Il lockdown infatti ha rallentato la crescita economica cinese, aumentando il malcontento in un popolo chiamato a ogni sacrificio nel miraggio dell'arricchimento.

 

 

 


Tutta la gestione del Covid da parte della Cina è dunque riconducibile a ragioni squisitamente politiche. Ma c'è una buona notizia. Pechino è una dittatura ma non di pazzi suicidi. In tre anni, anche in Estremo Oriente il virus ha subito una dozzina di variazioni e oggi morde poco. Il rompete le righe ha coinciso con la comparsa di una variante contagiosissima, che probabilmente è destinata a infettare la metà della popolazione, ma dalla letalità limitata. Della cinquantina di cinesi atterrati in Italia e scoperti positivi al tampone, la grande maggioranza è di fatto asintomatica. Nessuno è ricoverato in ospedale o in condizioni comunque difficili. Oggi sapremo di più sulla variante che li ha infettati, dopo che il ministro Schillaci ha ordinato il sequenziamento del virus di tutti i contagiati intercettati. Il governo ha reagito con tempestività, isolando i positivi e disponendo tamponi obbligatori per tutti coloro che sbarcano dalla Cina. Una decisione che ha permesso di intercettare subito gli orientali infetti, ben diverso da quanto fece l'esecutivo Conte, con Speranza ministro della Salute.

AI tempi, le prime avvisaglie di Covid furono accolte con la campagna "abbraccia un cinese" e i governatori leghisti si guadagnarono la patente di razzisti per aver fatto una conferenza stampa nella quale chiedevano di mettere in quarantena tutti coloro che atterravano dall'Estremo Oriente. Questo non ha impedito a Speranza di fare sciacallaggio sulla nuova emergenza e di sostenere che i contagiati di Pechino sarebbero «la prova del fallimento della strategia della Meloni sul Covid». Ancora una volta la sinistra prova a intestare il virus cinese al centrodestra. Tre anni fa era colpa del leghista Fontana, il primo in Italia a raccomandare a tutti di mettere la mascherina. Oggi, secondo l'esponente di Articolo 1 di prossimo ritorno nel Pd, se un cinese si ammala a Wuhan è colpa del premier italiano. Uno squallore politico che non merita commento.

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