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Donzelli-Delmastro? Il Pd usa le querele per zittire gli avversari

Renato Farina
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Come da prassi, inaugurata da Enrico Berlinguer contro un inerme Leonardo Sciascia nel 1980 (vedi tra qualche paragrafo), la sinistra chiede soccorso alla mamma, o alla fidanzata, fate voi: cioè alla magistratura. Il Partito democratico - attraverso le sue capogruppo al Senato, Simona Malpezzi, e alla Camera, Debora Serracchiani – ha saltato il fosso della politica e posa i piedini nel prato della giustizia che suppone smaltato di fiorellini rossi. Sono già state depositate le querele per diffamazione e 1e richieste danni contro Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro che hanno censurato come un favore alla mafia e al terrorismo le visite ai detenuti al 41bis nel carcere di Sassari.

Questi atti giudiziari sono un flagrante e furbesco tradimento della Costituzione che costantemente il Pci-Pds-Pd sventola come fosse il suo libretto rosso. La reputa sua proprietà privata, perciò si permette di stracciarne una pagina, e se la mette in tasca fischiettando, in nome del proprio onore, sfregia l’onore stesso del Parlamento. Quelle querele sbianchettano l’articolo 68, che più di ogni altro fortificala centralità inviolabile del Parlamento. Il primo comma taglia la testa all’asino o alle oche. «I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». Inderogabile insindacabilità delle opinioni.

 

 

Tutte. Specie – ovvio! - quando assumono la sostanza e la forma di potenti j’accuse. Per le bagattelle, a impedire la meschinità delle denunce, basta lo scacciamosche. È proprio sulle materie gravi e gravissime che servono le guarentigie. La lettera e lo spirito della Carta sono perentori: non possono essere trascinati in foro esterno – il Tribunale discorsi e invettive, persino quando travalichino in insulti, sia se pronunciati in aula e in commissione, sia se tuonati fuori dalle sacre mura. Quest’ultima si chiama immunità funzionale. Dici in tivù o scrivi in articoli quello che hai detto o dirai in Parlamento.

NEANCHE NEL 1993 - Si noti. Anche quando nel 1993 le assemblee di Palazzo Madama e di Montecitorio, in ginocchio avendo le monetine alla tempia, ridussero ai minimi termini l’immunità dei propri membri, confermarono anzi riscrissero sul marmo il primo comma. Secondo il testo originario i parlamentari «non possono essere perseguiti», secondo quello del ’93, ancora vigente: «Non possono essere chiamati a rispondere» delle loro opinioni. Io non devo risponderne fuori. Dentro sì. Si chiama democrazia parlamentare, compagni.
Il trasferimento della politica nel territorio della giustizia è una mossa limacciosa per delegittimare il Parlamento.

Non è una tesi che mi sto inventando, coincide con il pensiero espresso dal giurista di maggior peso nella elaborazione della Carta: Piero Calandrei. Il quale presentò un emendamento all’art. 68, secondo cui ciascuna Camera sarebbe dovuta essere giudice esclusivo delle accuse mosse nel Parlamento all’onore dei suoi componenti. Un concetto primordiale della democrazia inglese. L’emendamento fu ritirato, ma il principio è stato salvaguardato con i Giurì d’onore. Ne sono stati istituiti da allora – ricorda a Radioradicale, intervistato da Lanfranco Palazzolo, il professore di diritto parlamentare Luigi Ciaurro – 4 al Senato e 33 alla Camera. Più uno, cioè quello che riguarda Serracchiani & C. Sono loro ad aver chiesto il giurì d’onore. Il presidente Lorenzo Fontana lo vara subito. E che succede?

 

 

Chissà come al Pd il Giurì non basta più. Malpezzi e Serracchiani lo ritengono una specie di sottoscala con scope e ragnatele, un teatrino burla, dove il diritto all’onore è succhiato dai pipistrelli. Quasi fosse un piumino da passare sotto le ascelle per riderne.

Che bel concetto di democrazia parlamentare. Non si fidano. E dire che la «Commissione d’inchiesta parlamentare» (Giurì è gergo giornalistico) dedicata al caso è paritaria e la presidenza va all’opposizione. Può accedere a carte riservate, chiamare a testimonio chi ritiene. Indaga, infine giudcia. Paura che emerga qualcosa? Timore dell’imparzialità? Il Giurì non è un organo politico, ha qualità di terzietà istituzionale, incarna l’essenza della dignità parlamentare. Non conosce prescrizione.

Niente da fare, a Malpezzi e Serracchiani non la si fa. Via dalla Camera, di corsa si suona il citofono della giustizia amica. In una nota a nome dei gruppi pd si legge: «Siamo certi che Delmastro e Donzelli si assumeranno la responsabilità delle loro gravi affermazioni senza nascondersi dietro l’immunità parlamentare». Eh no, stimate compagne, questa si chiama manipolazione della buona fede. Dopo aver ignorato l’esistenza dell’art. 68, fingono sia possibile rinunciarvi. Non esiste questo diritto. La Camera vota se darlo o no, punto. Non tutela il singolo, ma se stessa, la sua libertà.

IL PRECEDENTE - E siamo al precedente. Leonardo Sciascia, deputato radicale, in commissione Moro, 23 maggio 1980, raccontò che Berlinguer, tre anni prima, gli aveva confidato di «essere a conoscenza di certi rapporti del terrorismo italiano con la Cecoslovacchia». Con Sciascia c’era Renato Guttuso. Ahia. Ricordate il detto: qui lo dico e qui lo nego? Ma a chi credereste? Berlinguer querelò per diffamazione dando del bugiardo a Sciascia. A sua volta lo scrittore denunciò il segretario del Pci per calunnia. Essendo entrambi querelanti, la Camera lasciò fare al Tribunale. Il giudice ascoltò solo Berlinguer e Guttuso, che mentì per ragioni di partito, come poi risultò dagli archivi di Praga. Una vergogna. Un’offesa totalmente gratuita a Sciascia. Il processo fu archiviato perché la rivelazione era avvenuta in sede parlamentare: art. 68. Ora gli eredi di Berlinguer ci riprovano. 

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