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Augusta Montaruli, quando "i compagni" non le facevano dare gli esami

Antonio Rapisarda
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«Non sono mai scappata. Non lo farò ora». Con queste parole Augusta Montaruli, classe ‘83 da ieri ex sottosegretario dell’Università del governo Meloni, si è assunta – «da innocente» – la responsabilità politica di dimettersi dopo la condanna in Cassazione per il controverso caso chiamato Rimborsopoli. La stessa tempra l’aveva già dimostrata nell’estate del 2004, all”epoca 24enne studentessa di Giurisprudenza a Torino, quando la sua storia finì per la prima volta sotto i riflettori. Il motivo? I collettivi di sinistra le impedivano fisicamente di entrare all’Università per sostenere gli esami. La sua colpa? Essere una dirigente di Azione universitaria.

Per provare a esercitare il proprio diritto allo studio doveva entrare scortata dai suoi “commilitoni”. A Luca Telese, accorso a intervistarla, affidò una preghiera: «Mi faccia un favore. Non scriva che sono una vittima. Non mi ci sento. Non lo sono». Alla domanda successiva «E cosa si sente, allo lei rispondeva: «Una militante, per scelta. E poi una studentessa come le altre, che si è trovata a fare una battaglia di democrazia. Non per spirito eroico, per necessità».

 

Già solo per i riflessi di un episodio del genere si comprende come e perché Montaruli sia entrata di diritto nell’immaginario come una delle figure centrali della “generazione Atreju”. Una «militante per scelta», nel frattempo divenuta avvocato e quadro del movimento giovanile, che si farà trovare presente nei banchetti nelle periferie in una piazza difficile come quella torinese così come nelle istituzioni.

 

I primi passi sono da assessore alla Cultura a San Mauro Torinese per poi procedere con l’ingresso in Consiglio del Piemonte nel 2010 eletta col Pdl. In quegli anni diventerà portavoce della Giovane Italia ma nel frattempo, siamo a dicembre 2012, ecco arrivare la “chiamata” di Giorgia Meloni con la fondazione di Fdi. Saranno anche per lei 5 annidi traversata - col primo tentativo di entrare alla Camera nel 2013 - per poi alle Politiche del 2018 rappresentare la prima infornata “generazionale” dei meloniani alla Camera. Dentro Montecitorio si farà conoscere presto come pasionaria e interprete delle battaglie più identitarie.

Due su tutte: la strenua opposizione al ddl Zan e allo ius soli. A restare impressa, però, anche un’uscita dal forte impatto emotivo: quando intervenne in aula esprimendosi col linguaggio dei segni. Un gesto per richiamare il parlamento alla necessità di approvare la Lis, la lingua dei segni. Uno dei diritti civili “dimenticati” come spiegò lei stessa avendola vissuta in prima persona: «Sono figlia di genitori sordi». A seguire la cavalcata trionfante dell’ultima stagione, l’opposizione ai governi giallorosso e Draghi, la vittoria alle Politiche e la grande promozione nella squadra di governo. Fino al ripresentarsi della vicenda “preistorica” di Rimborsopoli. Condanna per cui non sarebbe scattata la tagliola della legge Severino. Ma siccome in mezzo per lei c’è una questione politica dirimente come «difendere le istituzioni» l’atteggiamento è lo stesso dei tempi dell’Università: non ha cercato altre vie allora. Non lo farà adesso.

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