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Carlo Calenda contro Landini: "Perché gli serve il sostegno di Repubblica"

Michele Zaccardi
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«Il dato è che in Italia l’automotive si è letteralmente consumato non per la transizione all’elettrico, ma perché il gruppo Fiat ha scientificamente deciso di uscire dal settore nell’indifferenza generalizzata. E per riuscirci senza avere contro il sindacato si è comprato Repubblica». L’accusa che il leader di Azione, Carlo Calenda, lancia è pesantissima. E ha un bersaglio: Maurizio Landini. «La cosa che colpisce è l’assenza totale della Cgil da questa battaglia. Lei si rende conto di quanto è strana questa situazione?».

Me lo dica lei.
«Landini vuol fare politica e per farlo ha bisogno del supporto del principale giornale della sinistra. Che, guarda caso, è stato acquisito da chi sta desertificando il settore dell’auto in Italia. In un certo senso è un’operazione geniale, perché spendendo praticamente nulla – e prima o poi se la rivenderanno Repubblica – gli Agnelli si sono garantiti il fatto che nessuno a sinistra dica niente su quanto sta succedendo all’automotive».

In effetti, fino a qualche anno fa la Cgil era più combattiva...
«Si ricorda le battaglie di Landini contro Marchionne, no? Ad esempio contro il contratto che Marchionne chiedeva per fare gli investimenti. Investimenti che poi sono stati fatti. E non a caso la produzione è aumentata fino a superare il milione di macchine prodotte. È abbastanza singolare che Landini, che allora attaccava Marchionne un giorno sì e l’altro pure, dopo l’acquisto di Repubblica da parte degli Elkann, con la produzione che scende sotto le 600mila unità e va verso la dismissione quasi totale, non faccia almeno le stesse battaglie».

Il segretario della Cgil vuole candidarsi alle europee?
«Questa è la voce che gira. Ma il punto è che questo è successo con tutti i segretari della Cgil, che sono finiti tutti in parlamento o a ricoprire un ruolo politico. E questo è un problema perché così l’azione e la strategia del sindacato non potranno mai essere indipendenti e focalizzate soltanto sugli interessi dei lavoratori».

Veniamo al caso Marelli, l’ex gioiello italiano della componentistica, che la settimana scorsa ha annunciato la chiusura dello stabilimento a Crevalcore, nel bolognese. Cosa è successo?
«La vicenda Magneti Marelli è la cronaca di una morte annunciata. Quando c’erano voci sulla vendita dell’azienda, incontrai Marchionne e gli proposi di venderla ad una cordata con Brembo, Cassa depositi e prestiti e altri, in modo da realizzare un grande gruppo della componentistica. Lui disse che non l’avrebbe venduta e che sarebbe rimasta nella mani degli azionisti, distribuendola come ha fatto con Ferrari. Quando Marchionne è morto, John Elkann l’ha venduta. Siccome l’ha ceduta ai giapponesi di Kelsonic Cansei si sarebbe potuto usare il Golden power per bloccare l’operazione, o almeno per mettere delle condizioni, come chiesi a gran voce. Questa cosa il governo Conte I, nonostante la retorica contro i poteri forti, non la fece. Alle mie uscite molto dure sul tema, John Elkann rispose dicendo che le assicurazioni le aveva avute lui. Sarebbe bene conoscerle. Come spiegai all’epoca, quelle assicurazioni, non essendo lui uno Stato, valevano meno di zero. E infatti cosa succede oggi? Succede che Magneti Marelli aumenta il numero di dipendenti di 7mila unità nel mondo e li diminuisce in Italia».

Cosa dovrebbe fare il governo?
«Deve convocare John Elkann. All’epoca della cessione di Magneti Marelli, John Elkann disse di aver fatto inserire nel contratto di cessione delle garanzie occupazionali. Io voglio sapere: dove sono queste garanzie? C’erano davvero? O erano una menzogna?»

D’altronde, con la cessione di Magneti Marelli da parte di Fiat Chrysler Automobiles nel 2019, Exor, la cassaforte degli Agnelli, che deteneva il 30% di Fca, incassò un dividendo di 670 milioni di euro su 2 miliardi totali.
«Gli Agnelli si fanno i fatti loro. Io posso avere la mia opinione sul fatto che un grande imprenditore che ha legato i suoi destini alla storia del nostro Paese dovrebbe avere un po’ di amor di patria, che Elkann non ha. Ma il punto non riguarda lui, quanto il potere statale che deve tutelare l’interesse pubblico. Invece gli Agnelli sono riusciti a non avere nessuna interferenza da parte dello Stato, né dai governi di destra né da quelli di sinistra, e nemmeno da parte del sindacatio. E questo coprendosi attraverso i giornali. Questa è la gigantesca anomalia italiana. Noi parliamo sempre di poteri forti ma, e me lo lasci dire per lunga frequentazione, in Italia, i poteri forti non esistono. L’unica cosa che è più debole dei poteri deboli è la politica».

Ritiene che il disimpegno dall’Italia dipenda dal fatto che in Stellantis comandano i francesi?
«Questo ha avuto un ruolo determinante e lo avrà anche in futuro. Nel senso che quando ci sarà da razionalizzare, non ci sarà una sola fabbrica francese toccata mentre lo saranno gli stabilimenti italiani. Quando hanno fatto l’accordo, il presidente Macron ha messo come condizione che non ci fossero esuberi in Francia. Già oggi tutte le funzioni del gruppo, che sono funzioni strategiche, sono gestite dai francesi».

Parigi detiene il 6% di Stellantis. Avrebbe senso un ingresso dello Stato italiano nel capitale per bilanciare lo strapotere francese?
«Intanto c’erano molte cose che dovevano essere fatte prima. Quando gli Elkann chiesero una garanzia pubblica per pagarsi il dividendo e concludere l’operazione Stellantis durante il Covid, anche lì nel silenzio della politica, io dissi che l’operazione non andava fatta in questo modo. Perché il governo aveva sì chiesto la permanenza degli stabilimenti in Italia, ma dando la possibilità di rimborsare la garanzia. Finito il Covid e ripagata la garanzia sono venuti meno anche gli obblighi. Tutto questo denota un’ignoranza gestionale totale; non a caso all’epoca il ministro dell’Economia era Gualtieri. Ora quello che il governo dovrebbe fare è una ricognizione su cosa è stato realizzato di quanto è stato promesso in termini di occupazione, di investimenti in ricerca e innovazione, di presenza di centri decisionali, che si misurano nel numero di dirigenti presenti negli headquarter della ex Fiat. Io questa cosa la feci con Marchionne, quando i suoi piani di investimento ebbero una flessione. Andai a fare verificare una per una le cose che erano state promesse». 

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