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Riforme costituzionali, cambiare la Carta si può e farebbe anche bene

Luigi Di Gregorio
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«La Costituzione non si tocca». Sentiremo spesso questo ritornello «a orologeria» nei prossimi mesi. È bene, quindi, partire ricordando quanto esso sia infondato. Che la Costituzione si possa “toccare” lo prevede la stessa Carta, all’articolo 138. E in effetti è stato fatto, eccome. Sono state 48 finora - 32 se escludiamo approvazione e modifica degli Statuti regionali - le riforme intervenute, dal 1948. Abbiamo già cambiato o abrogato ben 39 articoli. Dunque, la Costituzione si tocca da sempre, con modifiche avvenute praticamente in ogni Legislatura.

Che cosa allora non si può toccare per le vestali della Costituzione? Evidentemente, la forma di governo. Perché non si può toccare? E da quando? Partiamo con quest’ultima domanda. Il 18 giugno del 1997, la commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema giunse a un accordo (noto come “il patto della crostata”) su una riforma semipresidenziale e una legge elettorale a doppio turno di coalizione. Pare chiaro, dunque, che il “quando” abbia a che fare con ragionamenti successivi, dato che 25 anni fa gli allora Democratici di Sinistra erano pronti all’elezione diretta «del presidente e ad un suo notevole incremento di poteri. Questi ragionamenti successivi si basano su due considerazioni:

1 - nella cosiddetta Seconda Repubblica, il centrodestra ha vinto le elezioni del 1994, 2001, 2008, 2022. In tutto ci sono stati 5 governi, 4 Berlusconi e 1 Meloni. Il centrosinistra ha vinto le elezioni del 1996, 2006 e 2013, alternando ben 8 governi: Prodi (2), D’Alema (2), Amato, Letta, Renzi, Gentiloni. C’è, dunque, un problema di tenuta delle coalizioni, molto più evidente a sinistra. Il centrodestra è grosso modo lo stesso (ad eccezione delle elezioni del 1996) fin dal ’94. Il centrosinistra è a geometria variabile, tra campi larghissimi (Ulivo, con 18 sigle e Unione, con 23 sigle), vincenti ma molto “ballerini” al governo, e coalizioni risicate, di solito perdenti.

 

 

 

2 - La seconda ragione, collegata alla prima, è che a destra la tendenza alla personalizzazione e alla leaderizzazione dei partiti è iniziata prima e funziona molto meglio che a sinistra. In fin dei conti, in quasi 30 anni di “Seconda Repubblica”, nel centrodestra abbiamo avuto due tridenti: Berlusconi-Fini-Bossi, Berlusconi-Meloni-Salvini. Se proviamo a fare lo stesso ragionamento a sinistra, le cose si complicano parecchio.

Qualcuno potrebbe dire, nostalgicamente, che questa evoluzione non è virtuosa, che i partiti non possono diventare fan club o “cerchi magici” del leader di turno, che la politica ha a che fare con i programmi più che con le persone, e così via. Ma è un ragionamento antistorico, che non fa i conti con l’evoluzione della società, con cambiamenti che sono pre-politici, cioè sociali e antropologici. Sono più di 40 anni che si parla di “cultura del narcisismo” (Lasch) e di “società individualizzata” (Bauman) e quelle tendenze continuano a forgiare i nostri vissuti, amplificate dall’impatto individualizzante delle innovazioni tecnologiche.

Nel disorientamento del presente, privo di ancore ideologiche da tempo, sono i leader le nuove scorciatoie cognitive che orientano gli elettori. Che ciò non piaccia al Pd e agli intellettuali di sinistra è palese e lo dimostra plasticamente l’era renziana: una leadership efficace, ma combattuta dall’interno come nessun’altra. Tuttavia, c’è da chiedersi se la crisi di rappresentanza, accountability e credibilità della politica possa risolversi facendo finta di niente e continuando a sostenere una forma di governo che spesso e volentieri dà vita ad alchimie di palazzo che stravolgono le indicazioni del voto popolare, alimentando astensionismo e disaffezione. Si può discutere sulle modalità, ma difendere pregiudizialmente un sistema che si è dimostrato a dir poco non performante non può far bene né alla politica – che ha bisogno di rigenerare il suo rapporto col demos – né al sistema paese, che richiede, come mai prima, governi stabili ed efficaci, con orizzonti di legislatura. 

 

 

 

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