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Giorgia Meloni-Elly Schlein, la telefonata e il patto: il retroscena

Elisa Calessi
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Si sono sentite ieri mattina, prima che iniziasse la seduta al Senato che avrebbe approvato, in via definitiva, e con voto all’unanimità, il ddl contro la violenza alle donne. Un patto tra donne. Tra le due leader-donne: Giorgia Meloni e Elly Schlein. Un patto che erano stati in tanti a chiedere. Si sono sentite e, in pochi minuti, hanno concordato il da farsi. Più del merito, più del contenuto degli ordini del giorno presentati dal Pd e poi modificati insieme e approvati insieme, suggello dell’accordo, conta il segnale. E cioè che, sulla legge che- con tutti i limiti (tantissimi) di una legge che ambisce a intervenire su dinamiche umane - prova a rispondere alle tante donne uccise per mano di uomini, maggioranza e opposizioni lavorano insieme. Il patto tra Meloni e Schlein si è concretizzato in due ordini del giorno inizialmente presentati dal Pd, uno relativo alla formazione, l’altro a nuovi provvedimenti di legge da adottare in tempi brevi. Dopo essere stati leggermente ritoccati, sono stati votati anche dalla maggioranza.

 

 

Nel dettaglio, il primo testo presentati dal Pd, e riformulato secondo gli accordi presi dalle due leader, impegna il governo «a proseguire nell’ambito delle sue prerogative, nei necessari interventi volti a garantire un’apposita azione di formazione, aggiornamento e qualificazione con natura continua e permanente del personale che può entrare in contatto con le vittime (polizia e carabinieri, magistrati, personale della giustizia, personale socio-sanitario, insegnanti e polizia municipale)». L’altro ordine del giorno su cui è intervenuta una modifica condivisa, e dunque è stato votato anche dalla maggioranza, prevede di «promuovere la calendarizzazione dei disegni di legge che intervengono sulla prevenzione e sul contrasto della violenza sulle donne e la violenza domestica, a completamento della normativa vigente, al fine di iniziare il loro iter parlamentare in tempi rapidi» (inizialmente il testo prevedeva che dovesse avvenire “entro la data del 31 gennaio 2024”). L’intesa si è concretizzata nel voto finale: l’Aula del Senato ha approvato all’unanimità e in via definitiva il disegno di legge del governo contro la violenza alle donne che porta la firma del ministro Eugenio Roccella, di Matteo Piantedosi e di Carlo Nordio: 157 voti favorevoli, nessun contrario, nessun astenuto. Il voto si è concluso con lungo applauso e con tutti i senatori in piedi.

Ma la foto della giornata, dal punto di vista politico, è quella della presidente del Consiglio e della segretaria del Pd che, di primo mattina, si sentono al telefono e si accordano. Bypassando, da una parte l’altro leader dell’opposizione, Giuseppe Conte, dall’altra gli alleati della maggioranza. Un segnale che serve a entrambe. E che, perché no, potrebbe fare da apripista per altri passi (sulle riforme?).

 


Non a caso Schlein, proprio aprendo la direzione del Pd al Nazareno, ha reso onore all’avversaria, dicendo di aver apprezzato “il segnale che oggi ha dato la maggioranza al Senato”. E ha confermato di essersi sentita in queste ore con Meloni. Soddisfatta il ministro Roccella che ha definito, quella di ieri in Senato, «una bella pagina che abbiamo scritto insieme, in uno spirito di condivisione e leale collaborazione». Sempre Roccella, ha riconosciuto che le nuove norme della legge appena approvata «non avrebbero potuto salvare Giulia Cecchettin». Non basta una legge. «È necessario intervenire su molti altri fronti, se vogliamo spezzare quello che non una femminista, ma un grande Papa (Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione perla Dottrina della Fede, n.d.r.) ha definito “il giogo della dominazione di un sesso sull’altro”». Francesco Boccia, capogruppo del Pd, pur non lesinando critiche al provvedimento, ha definito «davvero importante il risultato ottenuto con il voto favorevole a due nostri odg». Mentre Michaela Biancofiore, presidente del gruppo Noi moderati-Udc, ha messo a disposizione il suo posto nella commissione sul femminicidio per cederlo a un maschio, rivelando che, quando si offre un posto in questo organismo a un collega uomo, in genere «arriva un “no grazie”, magari seguito da sorrisini deridenti». 

 

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