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Alessandro Zan, passerella a Gaza? Ma tace sui gay perseguitati

Daniele Dell'Orco
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Nella foto in cui posano davanti al valico di Rafah, in Egitto, gli esponenti del Pd che hanno partecipato alla “Carovana solidale” a sostegno del popolo palestinese insieme a parlmentari di M5S, Avs e componenti di associazioni pacifiste e Ong, espongono una bandiera arcobaleno con la scritta “pace”. Nel corso degli anni però, si sa, il vessillo è diventato per estensione simbolo di molto altro, finanche di neo-ideologie nate dal progressismo americano come quella Woke. Di più, l’arcobaleno è stato adottato come esempio di fluidità e per questo pefetto perle battaglie sui diritti delle comunità LGBTQ+.

La didascalia della foto ricordo degli esponenti Pd postata sul sito del partito, è accompagnata da un virgolettato di Laura Boldrini tratto da una sua intervista a La Stampa: «Ci sono oltre 1500 camion di aiuti fermi. Entrano con il contagocce, mentre dall’altra parte, a Gaza, si muore di fame. I controlli israeliani su ogni singola vettura sono estenuanti, durano anche più di trenta giorni. Ci sono beni essenziali che vengono inspiegabilmente rifiutati, rimangono nel grande compound della Mezzaluna rossa egiziana». Boldrini, che oltre ad essere onorevole del Pd è anche presidente del Comitato permanente sui diritti umani della Camera, era accompagnata, tra gli altri, dal collega Alessandro Zan. Uno che di arcobaleni e di LGBTQ+ se ne intende.

 

 

 

Insieme a loro c’era anche Arturo Scotto, che ha tenuto un diario di viaggio (terminato ieri). Nell’ultimo appunto, Scotto, da uno dei centro di raccolta e smistamento degli aiuti umanitari, denuncia: «Qui si stoccano le merci che non hanno passato il vaglio di sicurezza di Israele. Visitiamo un paio di capannoni e vediamo la quantità di aiuti che sono arrivati da tutto il mondo. Arabia Saudita, Kuwait, Germania, Francia, Australia, Indonesia oltre a Ong come Oxfam. Sconcerta che tra i beni bloccati siano quelli salvavita. Respinti anestetici, incubatrici per bambini, bombole di ossigeno, generatori, toilette chimiche, refrigeratori, depuratori d'acqua. E poi le ambulanze: ne autorizzano sette a settimana, mentre lì ne sono parcheggiate sedici, si lamenta Ahmed che ci accompagna nei depositi per conto della Mezzaluna».

Ebbene, magari non saranno multitasking, ma di certo negli ultimi mesi tutti loro, ma anche tutto il resto del fronte progressista che ha composto la carovana, hanno dimenticato un piccolo dettaglio: che mentre portano a termine i viaggi ideologici, con la bandiera che portano con sé, dentro la Striscia di Gaza, rischierebbero di morire. E non per colpa dei raid israeliani ma delle politiche di Hamas. La vita per gli omosessuali a Gaza non è mai stata particolarmente facile, ma se ad esempio in Cisgiordania dove governa (a fatica) l’Autorità Palestinese negli ultimi tempi la situazione si è alquanto evoluta, nella Striscia da quando Hamas ha preso il potere dopo le ultime elezioni libere del 2006, è sempre rimasta in vigore l’ordinanza del codice penale inglese 74 del 1936, che criminalizza i rapporti omosessuali tra uomini adulti anche se consenzienti.

 

 

 

I tribunali sono arrivati persino ad applicare la pena di morte per punire atti omosessuali. Gaza, insomma, segue l’esempio di 40 dei 57 paesi a maggioranza musulmana in giro per il mondo in cui sono in vigore leggi che criminalizzano l’omosessualità, prescrivendo punizioni che vanno da multe a frustate, da 10 anni di prigione alla morte, appunto. Molti componenti della comunità arcobaleno locale, già parecchio prima degli attacchi del 7 ottobre e nel totale silenzio, si erano dovuti autoesiliare. Dove? In Israele visto che a Tel Aviv, pur non essendo sempre apprezzatissimi specie dai gruppi ultraortodossi, non sono certamente sottoposti a nessun tipo di criminalizzazione, men che meno al rischio di pena di morte.

Le autorità israeliane avevano addirittura preso in considerazione la possibilità di concedere asilo politico agli omosessuali palestinesi. Del resto, fu piuttosto evocativo quando accadde a Mahmoud Ishtiwi, 34enne, giustiziato nel 2016 da Hamas con tre colpi di pistola al petto, in un’esecuzione pubblica, perché accusato di omosessualità. Era uno dei suoi più autorevoli comandanti militari. Fu un modo per mandare un messaggio chiaro. Ma non sono solo i progressisti italiani ad essere vittime di cortocircuito. I loro omologhi americani, da sempre, hanno mescolato la causa LGBTQ+ alle rivendicazioni delle minoranze islamiche e al sostegno alla causa palestinese. Nelle tante marce e nelle sfilate per il “Rainbow Pride” in giro per l’America, più volte gli organizzatori hanno espulso, nel corso delle varie edizioni, i manifestanti che sventolavano bandiere arcobaleno con la stella di David, etichettata come “offensiva” per un evento dal carattere “inclusivo”.

Ben più accettato, invece, il tradizionale saluto festivo musulmano “Eid Mubarak” su fondo arcobaleno. Nel 2017 lo sfoggiò persino sui calzini il primo ministro canadese, altro paladino LGBTQ+, Justin Trudeau al Pride Parade di Toronto. Ma nella difesa dei diritti a doppia velocità della sinistra una causa può essere messa in stand-by, se in un dato momento è più popolare un’altra. Se nega la precedente poco importa. 

 

 

 

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