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Premierato "fascista", l'ultima bufala della sinistra

Fausto Carioti
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Gira, e girerà sempre di più nei prossimi mesi, la bufala secondo cui l’elezione diretta del premier è un progetto «fascista». La propala anche Antonio Scurati, che pure di Storia qualcosa dovrebbe sapere. Nell’intervista apparsa ieri su Repubblica, sul francese Le Figaro e altri quotidiani europei, quando gli viene chiesto di indicare un provvedimento voluto da Giorgia Meloni che causi «un indebolimento della democrazia italiana», cita proprio «il progetto di riforma costituzionale che prevederebbe l’elezione diretta del capo del governo». Spiega che questa, «come insigni costituzionalisti hanno notato, svilirebbe il ruolo del presidente della repubblica come figura di garanzia e renderebbe il parlamento ancora più marginale». E «il discredito dell’istituzione parlamentare», chiosa lo scrittore, «è un tratto comune a tutti i populismi sovranisti e li accomuna al fascismo mussoliniano».

A parte la curiosità di sapere cosa pensi dell’equazione “elezione diretta = fascismo” la giornalista francese che ha intervistato Scurati, chiamata ogni cinque anni assieme ai suoi connazionali ad eleggere nientemeno che il président de la république, l’uscita dell’autore di M. è interessante, perché racchiude l’argomento principale con cui la sinistra intende delegittimare dinanzi all’opinione pubblica la riforma in cantiere: l’idea di far scegliere al popolo il capo del governo è mussoliniana. Chi ha studiato o ricorda la Storia del dopoguerra sa che è una falsità. Per dimostrarlo basta una citazione: «Serve una grande, profonda, rapida riforma costituzionale, il cui sbocco è la repubblica presidenziale. Io sono favorevole a questa soluzione fin dal 1945. Allora guardavamo al modello americano, quello francese non lo conoscevamo ancora».

A parlare così non era un reduce di Salò e il giornale che il 2 aprile 1991 pubblicò queste cose non era il Secolo d’Italia del Msi. Lui si chiamava Leo Valiani, nel 1980 era stato nominato senatore a vita da Sandro Pertini e fu l’uomo che, a nome del Partito d’Azione, firmò la condanna a morte di Benito Mussolini. La testata era L’Unità, organo del Pds. Valiani aggiungeva che il modello adatto all’Italia era quello di «una vera repubblica presidenziale in cui il presidente è anche capo dell’esecutivo». Ed «è chiaro», avvertiva, «che non bastala semplice elezione diretta del presidente della repubblica». Questa «non serve a nulla, anzi potrebbe addirittura essere nociva, se contemporaneamente avessimo un governo emanazione soltanto del parlamento, ma senza poteri esecutivi adeguati». Elezione diretta del premier e più poteri al governo, dunque. C’è stato un tempo in cui simili idee circolavano libere a sinistra. Giustamente, perché erano state il cuore del programma con cui il Partito d’Azione, appartenente al Comitato di liberazione nazionale e organizzatore delle brigate partigiane di Giustizia e libertà, si era candidato alle elezioni per l’assemblea costituente. In quel programma proponeva «la repubblica presidenziale di tipo americano», che aveva «la sua base necessaria nella riforma autonomista dello Stato, fondata sulla Regione e sul Comune».

 

 

 

PARLAMENTARISMO E DITTATURA

Tra chi la pensava così c’era il giurista Piero Calamandrei, la cui frase più citata, «La libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare», campeggiava sulla prima pagina della Stampa di due giorni fa, nell’anniversario della Liberazione. Però Calamadrei disse molte altre cose, e tra le più importanti ci sono quelle che sostenne il 5 settembre del 1946 durante i lavori della costituente, dove era capogruppo del Partito d’Azione. Spiegò che «la democrazia, per funzionare, deve avere un governo stabile. Se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato». A chi diceva che la repubblica presidenziale rischia di sfociare in una dittatura, ricordava che «in Italia si è veduta sorgere una dittatura non da un regime a tipo presidenziale, ma da un regime a tipo parlamentare, anzi parlamentaristico».

 

 

 

Per vedere il Movimento sociale proporre qualcosa di simile bisognerà aspettare oltre trent’anni, ovvero il congresso di Napoli dell’ottobre 1979 («Verso la II Repubblica») e il progetto di Costituzione scritto da Franco Franchi e adottato dal Msi nel 1982. Ma anche dopo, e sino a non molto tempo fa, sarà sempre dalla sinistra non comunista che verranno le spinte più forti per la trasformazione dell’Italia in una repubblica presidenziale. Ne sa qualcosa Giuliano Amato. Nel maggio del 1989, al congresso del Psi, spiegò che «ineludibile è il problema istituzionale», impossibile da risolvere senza «un presidente eletto da tutto il popolo, purché egli disponga della necessaria autorità». «Tempo fa», argomentava l’intellettuale craxiano, «pensavo che per avviare il cambiamento del sistema potesse bastare un presidente con gli stessi poteri dell’attuale: ora non mi spaventa affatto pensare ad un cambiamento della forma stessa di governo. Penso al sistemafrancese o americano».

Assicurava anche che «la possibile obiezione di autoritarismo non ha senso per chi conosce il radicamento che hanno nel nostro Paese gli istituti di libertà». È lo stesso Amato che ora, intervistato da Repubblica, sostiene allarmato che far eleggere al popolo il premier o il capo dello Stato è pericolosissimo, perché «significa squilibrare un’architettura che è fondata tutta sul parlamento». Rinnegando così se stesso e le sue idee precedenti, e pure questo aiuta a capire quanto valgano gli argomenti degli «illustri costituzionalisti» citati da Scurati.

 

 

 

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