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In alta quota dopo un ictus?“Con cautela tutto è possibile”

Grazie alle terapie oggi disponibili, seppure con le dovute attenzioni e rispettando i tempi di recupero del proprio organismo, anche chi ha subito un ictus può tornare godersi gite ed escursioni in montagna

Maria Rita Montebelli
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Settimana bianca in alta quota dopo un ictus? Si può, ma con qualche accorgimento in più. A dirlo è l'Associazione per la lotta all'ictus cerebrale (Alice) Italia, che rileva come gli oggettivi pericoli che si possono incontrare sopra i 2 mila metri - carenza di ossigeno, freddo, vento, valanghe – debbano essere tenuti in estrema considerazione da chi ha subito un ictus. La riduzione della pressione atmosferica e, di conseguenza, della pressione dei gas presenti nell'aria che respiriamo, fa sì che salire in alta quota, soprattutto per soggetti con patologie acute o croniche, debba essere un'attività da svolgere sotto il controllo medico. A 2 mila metri si ha una riduzione del 20 per cento dell'ossigeno presente nell'aria, a 3 mila ne manca già il 30 per cento, a 4800 metri - l'altezza del Monte Bianco - ne manca circa la metà. Un organismo sano può mettere in campo tutti i meccanismi necessari ad un adattamento anche rapido, ma per soggetti con patologie acute o croniche la carenza di ossigeno può essere problematica. Questo è ancora più vero per chi ha sofferto di un ictus o un Tia, patologie che si caratterizzano per il ridotto apporto di ossigeno al tessuto cerebrale. La montagna quindi non diventa un tabù, mabisogna fare attenzione a regole precise. “L'ictus è un evento improvviso, inatteso e traumatico – afferma la dottoressa Nicoletta Reale, presidente di Alice Italia - Ma oggi, grazie alle terapie disponibili, è possibile tornare, dopo un percorso di riabilitazione, a condurre una vita il più possibile normale, senza dover essere costretti ad abbandonare le proprie passioni e i propri interessi. La nostra associazione da sempre affianca le persone colpite da ictus con l'obiettivo di creare una rete di contatto e condivisione con chi ha già vissuto la stessa esperienza, fornendo informazioni non solo sulla prevenzione primaria, ma anche sulle opportunità disponibili nelle complesse fasi del post ictus”. Alice Italia consiglia di non superare i 1500 metri di altitudine nei primi tre mesi successivi all'ictus e non di andare oltre i 2 mila tra il quarto e il sesto mese. Trascorso questo periodo, le condizioni cliniche sono già stabili ed è possibile pianificare gite anche più complesse spingendosi al di là dei 2 mila metri, ma questo dipende molto da soggetto a soggetto. È fondamentale, per prima cosa, sapere dunque quanto tempo è trascorso dall'evento ischemico. Così come è assolutamente necessaria la stabilità dei fattori di rischio cardiovascolari. In caso di ipertensione arteriosa i valori della pressione devono essere ben controllati già a bassa quota; così come dev'essere ben controllata la glicemia nei pazienti diabetici. I valori di colesterolo devono essere nei livelli di normalità e non bisogna fumare; è necessario, infine, assumere con scrupolo tutte le terapie prescritte dal neurologo. Trascorsi sei mesi dall'ictus o dal Tia è necessario in ogni caso fare una visita di controllo, in cui si fa il punto della situazione, con valutazione del rischio per decidere come pianificare l'attività fisica in montagna. “Tendenzialmente superare i 3500 metri rimane un discreto rischio – dichiara il dottor Guido Giardini, direttore di neurologia e stroke unit e responsabile del Centro di medicina e neurologia di montagna dell'ospedale regionale Parini-Usl della Valle d'Aosta - Vanno evitate le giornate molto fredde e con forte vento, dal momento che le temperature rigide possono causare vasocostrizione. Tanto più se il paziente ha una concomitante patologia ischemica cardiaca. A causa dello scarso numero di dati scientifici riguardanti il rischio a quote superiori, i 4 mila metri restano un traguardo impegnativo, mentre le quote lievi e moderate non rappresentano un rischio. Bisogna evitare le giornate eccessivamente fredde, controllare bene i fattori di rischio, assumere le medicine prescritte, alimentarsi e idratarsi in modo corretto, avere sempre con sé tutti gli indumenti e le attrezzature necessarie”. Non tutti i medici di famiglia o gli specialisti hanno seguito una formazione in medicina di montagna; è possibile che un neurologo non abbia risposte ai quesiti di un paziente appassionato di montagna. In questo caso, la persona interessata può rivolgersi ad un centro di medicina di montagna con esperienza anche nel campo delle malattie neurologiche, presso il quale effettuare non solo una visita specialistica, ma anche test specifici inerenti l'adattamento alle alte quote. Oltre all'esecuzione di esami strumentali volti allo studio del sistema nervoso con la valutazione di neurologi esperti in medicina di montagna  in alcuni casi viene posta indicazione ad un test in ipossia o altitudine simulata. Nel corso di questo esame il paziente respira una concentrazione di ossigeno ridotta, come se si trovasse ad una quota elevata. Durante il test, che può avvenire sia a riposo che durante sforzo, vengono misurati tutti i parametri vitali cardiocircolatori e respiratori ed è possibile valutare la risposta all'alta quota. I dati ricavati dalla visita e dagli esami effettuati orientano poi verso i consigli personalizzati, che vengono forniti ad ogni singolo paziente. (MATILDE SCUDERI)

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