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Api a rischio estinzione? "Tutto falso, sono anche troppe": il ribaltone

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Claudia Osmetti
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Api. Bendette api. Che ce ne fossero di più, che sono utili, utilissime: intelligenti come poche, garantiscono (e da sole) circa il 35% della produzione globale di cibo, svolazzano e fan mica solo il miele, fanno fiorire zucchine e meleti, le rubano pure tanto valgono oro. Tutto vero. O quasi. Perché sì, sul loro ruolo centrale in natura non c’è dubbio. Epperò no, non sono così in estinzione come si crede. È che ce ne sono fin troppe, di api. Ci hanno riempito di proclami, di avvisi, di consigli per “salvarle”: e adesso vien fuori che tra il 2011 e il 2021 la conta degli alveari nel mondo è aumentata del 26%, che in numeri assoluti fa qualcosa come 101,6 milioni di arnie, e il risultato è l’esatto opposto di quello che ci auspicavamo. La produzione di miele è in calo (perché sempre più spesso vengono “allevate” in città), gli altri insetti impollinatori rischiano (per davvero) di sparire e addio anche alla biodiversità. La fotografia, globale, la scatta la Fao, la costola per l’alimentazione e l’agricoltura dell’Onu, ossia delle Nazioni unite. Certificata che più certificata non si può, anche in un recente articolo del New York Times che va esattamente in questa direzione. Quella di chiederci: ma siamo sicuri che le api stiano scomparendo?

 

 

Il primo allarme è scattato una ventina di anni fa, erano i Duemila, l’ideologia “eco” doveva ancora arrivare e Greta Thunberg, era appena una bambina. Però si era cominciato a sostenere che quegli insettini ronzanti fossero in pericolo: e il problema è che ci siamo fermati lì. Abbiamo cominciato a comprare arnie, a tutelare le api, e ci siamo dimenticati del resto. Al punto che molti apicoltori statunitensi (assieme ad altri colleghi europei), adesso, lanciano l’appello inverso: dicono, ai loro clienti intenzionati a salvaguardare questi esserini spaesati, di installare cassette per gli altri insetti o di procurarsi, semmai, le piante apposite, in modo che tutti possano banchettare senza differenze. Altrimenti è un cortocircuito: perché noi, in buona fede, pensiamo di tutelare l’ambiente, invece lo stiamo rovinando. O meglio, stiamo minando la sua biodiversità: il che, alla fine, è lo stesso. Benefici zero.

La “sindrome dello spopolamento della colonia” (ha pure una sigla, in inglese si dice “Ccd”) è un fenomeno che ha interessato studiosi e ricercatori: colpa dei pesticidi, s’è detto. Colpa di un fungo parassita, di un virus, del foraggio che non c’è più e, ovviamente, del cambiamento climatico che è quella definizione jolly, va bene per tutto e non vuol dire (stringi stringi) assolutamente niente.

 

 

Colpa nostra, insomma. E magari proprio per questa ragione abbiamo preso a cuore la questione, le campagne di sensibilizzazione si sono moltiplicate al grido di “save-the-last-bee” (salva l’ultima ape): peccato che l’“ultima” è diventata penultima e poi è diventata uno sciame e poi, ora, ne abbiamo talmente tante che chi lavora nel settore subisce perdite significative (il 20% degli alveari non sopravvive nei mesi invernali) e il pianeta, pare, non se la passi meglio di vent’anni fa. Intendiamoci, una cura sostenibile, modello “contadini alla vecchia maniera”, senza diserbanti e prodotti chimici impiegati nei campi, sicuramente aiuta. Aiuta sempre. Però lo sfruttamento mondiale delle api mellifere (che sono quelle che conosciamo tutti e che oggi abbiamo in eccesso) vale un giro d’affari multi-miliardario. Il resto lo fa la cultura (o cultura) moderna: recepito il messaggio (attenti-le-api-sono -a -rischio) lo abbiamo semplificato, probabilmente pure un po’ troppo. Non ci siamo accorti che tutto attorno c’era un settore, quello degli insetti impollinatori e delle api selvatiche, che anche lui necessitava di un’attenzione particolare. C’è chi lo chiama green-wash (quella tendenza a lavarci la coscienza con facili slogan ambientalisti, senza però approfondire alcuna questione a riguardo) e chi la chiama, adesso, sorpresa. In Slovenia, per esempio, la produzione di miele è calata del 15% e il numero delle mellifere è raddoppiato: non c’è nettare per tutte, tanto che gli apicoltori di Lubiana sono costretti a nutrirle con lo zucchero. Ci siamo cascati tutti: ma ora chi lo dice, ai bombi, alle falene e alle vespe, che non abbiamo proprio messo nel conto?

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