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Alberto Grandi, la balle e gli errori di questo prof sul cibo italiano

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Attilio Barbieri
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L’intervista al professor Alberto Grandi sulle tradizioni del cibo italiano «inventate» di sana pianta, pubblicata dal Financial Times la scorsa settimana, ha scatenato un turbine di polemiche destinate a durare a lungo. Grandi, mantovano di origine, professore associato all’Università di Parma, è stato ospite in Tv e in radio di numerose trasmissioni che hanno rinfocolato le polemiche. La tesi di partenza, ampiamente illustrata nel libro Denominazione di Origine Inventata (Mondadori, 2018) è che la maggior parte dei prodotti tipici italiani siano stati letteralmente inventati di sana piana e accreditati sul mercato con campagne di marketing. Le tradizioni alimentari italiane, secondo Grandi, sarebbero un’abile invenzione dei produttori. Ma è davvero così? Fino a che punto le origini del cibo made in Italy possono essere confutate? Ecco cosa ho scoperto rileggendo il volume e analizzando le tesi del professore mantovano.


LARDO DI COLONNATA
«È ovvio che un salume così buono, ottenuto con un procedimento molto complesso», scrive Grandi sul Lardo di Colonnata Igp, «debba per forza essere frutto di un sapere sedimentato nel territorio da chissà quanto tempo». Eppure questa considerazione, non vale al Lardo di Colonnata l’immunità dalla demolizione delle prove storiche incluse nel disciplinare. Morale: «Una Colonnata di frottole», come s’intitola il capito del volume che ne parla.


POMODORO DI PACHINO
Nel mirino di Grandi è finito pure il Pomodoro di Pachino Igp, reo di essere frutto di una selezione genetica accelerata messa a punto dalla Hazera Genetics. Nulla a che vedere con gli Ogm, sia chiaro. Ma l’origine dei semi, basta al professore per bollare il ciliegino che si coltiva a Pachino come un «pomodoro made in Israele». Una forzatura evidente, visto che quasi tutte le Igp vengono prodotte a partire da materie prime alimentari importate. La Bresaola della Valtellina Igp, ad esempio, si fa soprattutto con la carne di zebù brasiliano. Eppure è della Valtellina, così come il Pomodoro di Pachino Igp si può considerare «di Pachino», anche se i semi provengono da Israele. «Il vero Parmigiano Reggiano si fa nel Wisconsin». Così è intitolato il capitolo dedicato alla regina delle Dop italiane.


«Se vogliamo mangiare il Parmigiano dei nostri nonni», scrive Grandi, «dobbiamo andare nel Wisconsin, non certo a Parma». In realtà il Nostro ha poi parzialmente ritrattato. «Il Parmigiano vero è quello che si fa a Parma, è chiaro», ha ammesso intervistato da Alessandro Milan nella trasmissione Uno, nessuno 100Milan, su Radio24, «ma se noi volessimo mangiare quello che facevano i nostri nonni negli anni Venti, dovremmo mangiare quello che si fa nel Wisconsin», prodotto dai discendenti degli «emigrati italiani che hanno continuato a farlo come si faceva da noi 100 anni fa. Poi qui da noi è diventato un prodotto straordinario, là è rimasto quello che era. Sicuramente è più buono il Parmigiano, non è paragonabile come qualità. Solo che 100 anni fa era un prodotto andante anche da noi, ma questo non si può ammettere». Ma se scrivi, come ha fatto Grandi, «il vero Parmigiano si fa nel Wisconsin», il concetto è molto diverso.

 

 


PROSCIUTTO CRUDO
Per demolire la tradizione del principe dei salumi tricolori Grandi ricorre all’escamotage più usato anche fra i complottisti: l’inversione dell’onere della prova. Siccome nel Medioevo i suini erano allevati allo stato brado nei boschi e siccome «i boschi erano diffusi in tutta l’Italia centro-settentrionale» non è detto che non si allevassero i maiali anche il Liguria o nella provincia di Brescia. Quindi i consorzi di tutela dovrebbero dimostrare che non venivano prodotti salumi al di fuori del loro territorio, altrimenti cadrebbe l’unicità rivendicata ad esempio nei disciplinari dei prosciutti di Parma, di Carpegna o San Daniele. E a proposito del salume friulano Grandi incorre in uno svarione clamoroso quando scrive che «una parte delle cosce con cui si fa il San Daniele provengono da allevamenti non italiani che sono in grado di rispettare il disciplinare di produzione. E questo avviene anche per altri prosciutti». Ma nelle filiere Dop (Denominazione d’origine protetta) non può entrare nessuna materia prima che non sia 100% italiana. Se dovesse accadere per i responsabili scatterebbero le manette.

 

 


FOCACCIA DI RECCO
Non si salva neppure la celeberrima focaccia di Recco al formaggio Igp. Sotto accusa la scelta di limitarne la produzione e la vendita nei quattro comuni previsti dal disciplinare: Recco, Avegno, Camogli e Sori. «Una contraddizione in termini», argomenta Grandi, «la denominazione, infatti, serve proprio a fornire garanzie di genuinità e di rispetto della tradizione di un prodotto anche fuori dall’area di produzione. Insomma, in termini tattici si tratta di un’evidente fesseria». Peccato che il disciplinare preveda che la Focaccia di Recco sia consumata appena sfornata per evitare che perda le qualità organolettiche del formaggio fuso. E la scelta di vietarne la congelazione e dunque il consumo nel resto d’Italia, va letta in una chiave di marketing territoriale spinto. Condivisibile o meno che sia, perché bollarla come «fesseria»

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