Claudia Cardinale: "Recitare mi fa paura, ma sto tornando"

di Andrea Tempestinisabato 8 marzo 2014
Claudia Cardinale: "Recitare mi fa paura, ma sto tornando"
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Rintracciarla è un’impresa quasi impossibile. Seguirla poi nei suoi frenetici spostamenti ha dell’incredibile. Enumerare poi cosa stia facendo e dove, come e quando siano visibili i film che sforna a getto continuo in ogni località del pianeta ha dell’avventuroso e del fantastico. Tanto più ora che, come lei stessa dichiara con un malizioso sorriso, è finalmente un’attrice libera che accorre sui set più occulti e misteriosi che esistano. Dai deserti più impervi al più solare dei mediterranei senza soluzione di continuità. Al punto che persino i suoi amici più cari pensano che oggi il tratto più distintivo del suo carattere si riassumi nella parola fuga. Ma è proprio così, signora Cardinale? Claudia ride di gusto prima di smentire con grazia il nuovo clichèdi frenetica globe trotter che rischia di rimanerle appiccicato addosso. Smentisce infatti con foga facendo «no» con la mano, prima di ammettere con una punta di orgoglio che forse, ahimè, è proprio vero, ma lei come al solito non c’entra per niente. Dato che tutto, sono le sue precise parole, accade e continua ad avvenire senza un programma prestabilito, come se le regole le dettasse un’invisibile divinità. Una divinità che le vuol bene o no? «Diciamo di sì, almeno per scaramanzia. Intendiamoci, da Francia e Italia continuano ad arrivarmi delle proposte e, se ne accetto poche, la verità è semplice: sono troppo impegnata ad esplorare, come Phileas Fogg, l’eroe del Giro del mondo in 80 giorni, tutta la terra». Mi scusi, ma non ne ha già visto abbastanza? «In apparenza, ma non in sostanza. Da giovanissima passavo da un film all’altro e ciò che assorbivo della realtà che mi circondava era il lavoro sul set. Mentre adesso privilegio altre cose e faccio l’attrice per esplorare l’universo». Guarda guarda, forse per questo la appassiona lavorare per nuove cinematografie, nuovi registi e nuove patrie? «Ha detto bene: nuove patrie. Da giovane, oltre a Cinecittà e a Parigi, c’erano Hollywood e le coproduzioni internazionali. Mentre oggi per fortuna c’è ben altro. Tunisia e Turchia ma anche il Portogallo di Oliveira o la New York buia e cimiteriale che…». Che? «La mia regista Nadia Szold mi ha fatto scoprire l’anno scorso durante la lavorazione di Joy de V, un film che mi ha fatto superare la mia paura». Paura…come mai? «La paura di non trovarmi a mio agio lavorando a stretto contatto con non attori scelti ad hoc perchè affrontassero con me davanti alla macchina da presa il loro terrore di comunicare. E di fronte alla mia disponibilità superassero inibizioni e complessi. Nadia, che è figlia di uno psichiatra e che a suo tempo ha studiato con Werner Herzog, uno dei miei registi preferiti, mi ha insegnato che il cinema non è fatto per esibire noi stessi ma per farci conoscere chi si scontra col nostro sguardo». E New York cosa c’entra con tutto ciò? «La Grande Mela è un luogo e, al tempo stesso, un non luogo. Dove la gente si perde per ritrovarsi ma il più delle volte smarrisce la sua identità. Tutto il contrario di quel che avviene in Diventare italiano con la signora Enrica, quello che amo di più tra i miei film più recenti». Posso chiederle perché? «Semplicissimo. Ali Ilhan, il regista, d’accordo col comune di Rimini mi ha voluto in un film turco realizzato tra la Romagna e Istanbul dove, in omaggio a Fellini, i ragazzi turchi si tramutano nei giovani italiani di oggi. Che sul mare, davanti a un luogo mitico come il Grand Hotel celebrato da Federico, sciolgono un inno alla fraternità universale presentandosi nei panni di una schiera di vitelloni di oggi. Dove avrei mai trovato in un film vacanziero come quelli che si realizzano oggi coi divi consacrati in località mondane un’atmosfera simile a un inno alla vita?». E la Tunisia, il suo paese d’origine? «Ci vado spesso, ma non sempre per lavoro. Non vi giro un film dal 2009 quando ho accettato di apparire in Le fil spezzando una lancia sull’integrazione dei gay che mi hanno eletta a madrina. Una bella storia che ha fatto il giro dei festival ma che in giro ha tuttora problemi di programmazione. Ma io non mi arrendo. Il mio motto è non bisogna fermarsi mai». E l’Italia? «Non la trascuro. Ho appena finito di girare in Puglia con Philippe Leroy L’ultima fermata che allude al tratto ferroviario tra Avellino e Rocchetta Sant’Antonio. Una pellicola fatta apposta per presentare a tutto il mondo la leggenda di un Sud in continua espansione. E che va aiutato come io aiuto i cineasti giovani. Han così scarsi finanziamenti dallo Stato da quando le coproduzioni sono, ahimè, assolutamente latitanti». intervista di Enrico Groppali

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