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Eiffel 65, parla Jeffrey Jey: "Abbiamo scritto la storia della dance con Blue, ma il top è stato Sanremo"

Leonardo Filomeno
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Si scrive Eiffel 65, si legge supereroi della dance. Oltre alla sincronizzazione di "Blue" nel colossal Iron Man 3, a ricordarcelo ci pensa Spotify. Nell'ultimo mese sono stati ascoltati un milione e 400mila volte, mentre le riproduzioni di "Blue" galoppano verso quota 80 milioni. Tutta linfa che passa di nuovo dai concerti, tra sold out ricorrenti, discoteche importanti, fan vecchi e nuovi. Insomma, a 18 anni dall'exploit planetario di "Blue", sono ancora loro ad avere realmente successo nei locali. Un ottimo motivo di riflessione per chi, finiti i tempi di vacche grasse per l'Italia, "certa commerciale" l'ha sempre un po' snobbata o rinnegata. Ne abbiamo parlato con Gianfranco Randone, in arte Jeffrey Jey, cantante della band torinese. Energico, attentissimo alla voce, su questa nuova fase ha le idee chiare: "La forza mia e di Maurizio Lobina supera quella di un normale gruppo revival, infatti non ci consideriamo come tale".

Dunque mai ti saresti immaginato un altro momento così importante?
"Sinceramente, no. La risposta del pubblico nei concerti è addirittura superiore rispetto a quando cantavamo in italiano, però quelle canzoni ci hanno permesso di scavalcare i limiti di una normale formazione dance, dandoci oggi quei privilegi di cui gode una vera band pop".
Curioso che la dance in italiano abbia fatto per voi da volano generazionale.
"Fu una scelta naturale, reclamata anche dai fan. L'esperimento di '80's Stars', con Franco Battiato, non andò male. 'Una notte è forse mai più', ai tempi tra i pezzi meno fortunati, oggi i ragazzi la cantano a squarciagola durante i live. L'italiano nei nostri pezzi ha azzerato l'usura del tempo. Il resto lo fanno i passaparola tra fratelli e il fuoco di fila sui social, visto che queste produzioni in radio non le senti".
Però "Panico", anche se piuttosto coerente con la vostra storia, non ha funzionato.
"Rispecchia esattamente ciò che ti aspetti dagli Eiffel: un pezzo uptempo, con cenni 90s e un messaggio in italiano. Non ha funzionato perché un discorso del genere, in Italia, oggi è semplicemente impossibile da portare avanti. Non escludo che possa avere la stessa sorte di pezzi come 'Una notte è forse mai più'".
Questa visione popcentrica della dance odierna ti piace?
"Sì, perché arrivo da un mondo prettamente pop. Il connubio tra energia della dance e melodie pop forti coincide con la formula che ha portato al successo gli Eiffel. Prima veniva la canzone, poi l'amore per la discoteca, che ha contribuito a dare al gruppo il colore e il suono che oggi tutti conosciamo".
I colori della dance attuale sono oggettivamente tra i meno vivaci, non trovi?
"Diciamo che abbraccia modalità differenti da quelle degli anni '90, ma non credo sia giusto parlare di migliore e peggiore. La fortuna di quella decade è che ha un colore che fa fatica a tramontare, perché porta con se tratti e caratteristiche che non debbono avere necessariamente un'età. I nostri dischi rappresentano una fotografia sonora della vita di tante persone. Per quanto di matrice dance, il linguaggio pop negli anni '90 era fortissimo. E tanti pezzi sono stati capaci di sopravvivere come inni nel tempo, aldilà del suono specifico. Credo sia naturale per le nuove generazioni cercare delle alchimie proprio nella dance di quel periodo: questo movimento musicale aveva un grande seguito perché portava la gente ad essere felice".
Con "Blue" avete venduto milioni di dischi, ripensi spesso a quei momenti?
"Qualche volta ripenso alla velocità con cui questa canzone scalò le classifiche di tutto il mondo: era qualcosa di folle. I momenti più belli restano quelli al Dodger Stadium di Los Angeles, accompagnati dalle nostre facce sui cartelloni prima dei concerti. Il tour americano dell'album 'Europop' comprendeva 40 date, tutto era frenetico e intenso nella stessa misura, il tempo per visitare le città in cui ci esibivamo non c'era".
Il palco dell'Ariston ti ha dato in seguito una popolarità diversa.
"Dopo il successo di Blue, molti non sapevano che faccia avessi, il passaggio a Sanremo ha cambiato tutto. Palchi come quelli di Top of the Pops avevano una dimensione più asettica, il legame con le tradizioni familiari era inesistente. A Sanremo, dove partecipammo nel 2003 con 'Quelli che non hanno età', ti sentivi osservato, sapevi che davanti allo schermo c'erano i tuoi parenti a guardarti, oltre che l'Italia intera. Anche andare in giro con gli amici a bere qualcosa, dopo l'Ariston, divenne più complicato, almeno da noi".
La musica è nel tuo dna, tuo padre era polistrumentista.
"Nella sua famiglia erano tutti musicisti. Io ho sempre sognato palchi in stile U2, loro erano più filo Ariston. Le lacrime sul viso di mia madre mentre le comunicavo la partecipazione a Sanremo non le dimenticherò mai. Era il sogno più grande di mio padre, che era scomparso da poco. E l'onore di coronarlo il destino l'aveva riservato al sottoscritto".

 


 

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