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Claudio Santamaria, la nuova sfida in tv: "Ecco perché oggi non si parla più di mafia"

Francesca D'Angelo
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Claudio Santamaria, mi dica la verità. La sua nuova serie tv, L'Ora, è una lettera d'amore al giornalismo o il suo elogio funebre? Della serie: qui giace l'ei fu giornalismo...
«No, nessun elogio funebre! La storia non vuole essere una cartolina nostalgica su un pezzo di storia che non esiste più. Semmai rievochiamo un passato che ha ancora parecchio da dire al nostro presente».

Effettivamente, di messaggi, L'Ora ne snocciola parecchi. La fiction, che ha esordito mercoledì sera su Canale 5, ricostruisce (con parecchie licenze poetiche) la battaglia del quotidiano siciliano L'Ora: il primo negli anni 50 a sbattere in prima pagina la parola mafia. Santamaria interpreta il protagonista Nicastro che altri non è che il compianto direttore Vittorio Nisticò.

 

 

 

Vi siete presi diverse licenze poetiche...
«Abbiamo fatto una serie tv, mica un documentario. Quello che ci premeva non era la fedeltà storica, ma far emergere il coraggio di questi uomini: degli eroi, a tutti gli effetti, anche se non sapevano di essere tali. Di fatto L'Ora è stato il primo baluardo contro la mafia».

Cosa manca oggi al nostro giornalismo, che invece c'era all'epoca?
«A volte un po' di rigore. In passato i dibattiti tra i grandi intellettuali non scadevano mai sul personale. Anche quando le posizioni erano molto diverse, la schermaglia restava verbale. Oggi spesso non è così, le battaglie diventano personalistiche, e al centro non c'è più la notizia ma l'ego degli interlocutori. È un problema perché le risse sviliscono la professione stessa del giornalismo: se vedi in tv gente che arriva alle mani, inizi a perdere fiducia, a chiederti quali siano le voci libere».

In un'intervista ha dichiarato: "Oggi si scambia il cinismo con il giornalismo. Si pensa che dire una cosa brutta faccia apparire più intelligenti". Esattamente a chi stava pensando?
«Ah, ma lei vuole i nomi?».

Magari.
«Questo mai. Però posso dirle che in generale ci sono persone, sia comuni sia famose, che hanno un seguito online proprio perché cinici. Scrivono un tweet a effetto, molto intelligente, con la giusta dose di sarcasmo, e pensano di aver scritto il pezzo dell'anno. Fingono di essere dei moralizzatori ma in realtà sono solo dei canalizzatori di odio. È una deriva che mi rammarica molto perché la gente finisce per scambiare la cattiveria per giornalismo. O per intelligenza. Tra l'altro spesso questi stessi signori prendono a cuore le battaglie sociali più facili, mica quelle scomode e controcorrenti, e si guardano bene dal prendersela con gli amici e gli amici degli amici».

Una volta il giornalismo di sinistra era impegnato e intellettuale, mentre quello di destra più ruspante. È ancora così?
«Guardi che io ho solo interpretato un direttore di giornale. Mica lo sono per davvero».

Però i giornali li leggerà. Ed è pure marito di una giornalista assai brava (Francesca Barra, ndr). Quindi insisto.
«Mah, per quel che ne capisco io, ormai i confini sono meno marcati e questo è un fatto anche politico. Che poi, posso dire una cosa?».

Prego.
«Ci ha fatto caso che non si parla più di mafia? Zero. È un tema che è sparito dalle agende dei politici e dei media. Ma perché? Forse non è un argomento da campagna elettorale, o che fa guadagnare click... sta di fatto che non è più attuale. Invece lo è eccome».

 

 

 

Come se ne esce?
«Le scuole. Io partirei da lì, rilanciando lo studio dell'educazione civica, altrimenti ci trasformeremo nella società dei consensi. È fondamentale ricordare ai ragazzi cosa siano l'intimidazione, le organizzazioni criminali...».

Anche il mondo della recitazione non se la passa benissimo a causa dei social. Non vorrei metterle ansia, ma secondo me tra un paio di anni gli "influencer" vi ruberanno il lavoro.
«Onestamente non so se questo fenomeno potrà toccare gli attori della mia generazione. Vero è che, tempo fa, ho sentito che una grossa produzione ha preferito un attore, con meno talento, rispetto a un altro più bravo perché il primo aveva un sacco di "follower". Ecco, ammetto che la notizia mi ha destabilizzato. Non sono contro i social, ma non si possono confondere il talento con i like».

Vero, altrimenti i ragazzi cosa studiano a fare?
«Per fortuna sono ancora molti i giovani che investono sullo studio e la formazione. Il mio consiglio è quello di fare laboratori diversi: dovunque vada l'attore deve portarsi dietro la sua valigia (immaginaria, ovviamente) e "rubare" uno spunto da ogni laboratorio creativo che frequenta».

E lei? Quali sono stati i suoi scippi eccellenti?
«Quando avevo vent' anni, a Bertolucci ho scippato la semplicità».

La semplicità? A Bertolucci?
«Sì, lo so, suona strano ma è così. Creava meravigliosi film attraverso uno sguardo puro, limpido. Inoltre era un mostro di umiltà. Pensi che all'epoca chiese a me (a me!) come avrei fatto quella scena. Muccino invece mi ha insegnato a danzare sul set insieme alla macchina da presa».

A Gabriele Mainetti invece ha rubato il cuore: ormai lei è il suo attore feticcio.
«Ci conosciamo da anni, siamo grandi amici, ma guardi che per Lo chiamavano Jeeg Robot feci ben tre provini».

Alla faccia dell'amico.

«No, era giusto così. Anche perché, come diceva un mio insegnante di recitazione, io ho due regole: non lavorare mai gratis e non lavorare mai solo per amicizia».

Alessandro Borghi ha detto che solo lui, e pochissimi altri, accettano ancora di fare provini. Possibile?

«Purtroppo è così. Molti preferiscono non farli perché ne hanno paura. Invece sono fondamentali perché il provino non lo fa solo il regista a te, ma anche tu a lui... e pure a te stesso. Solo lì, in quella prova generale, capisci se il ruolo è davvero giusto. Per capirci: se si vuole volare alto, bisogna prima volare basso, non fare gli snob e misurarsi con il casting».

Gli attori devono mettere l'ego da parte?

«Sì. Bisogna prendere sul serio il lavoro, il film, il progetto: non se stessi».

Le sale cinematografiche sono vuote: è colpa solo della pandemia o mancano anche i buoni film, in primis italiani?

«Il vero banco di prova sarà a ottobre: lì capiremo il destino delle sale. Quanto alla qualità dell'offerta, titoli come Spiderman o lo stesso Freaks out sono pensati ad hoc per il grande schermo. Questo secondo me fa la differenza. Ricordo che il regista Silvano Agosti ripeteva a Mainetti: "ricorda che stai obbligando una persona a uscire di casa, vestirsi bene, cercare a parcheggio, spendere dei soldi e stare due ore seduto a vedere il tuo film: tu gli devi dare qualcosa. Non puoi fare un film solo per te stesso o qualcosa di misero che può essere visto anche in tv". Questa secondo me è la grande sfida».

È vero che medita di debuttare alla regia?

«Sì, è così. Ho diretto un cortometraggio ed è stata l'esperienza più bella in assoluto della mia carriera. Il passo al lungometraggio è quindi obbligato».

 

 

 

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