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Luca Barbareschi fa impazzire i benpensanti: nei panni di un prof-psichiatra...

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Bruna Magi
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Un film di sottilissima interpretazione, The penitent (sui nostri schermi dal 30 maggio), tratto dal dramma teatrale di David Mamet, premio Pulitzer, un Oscar e, in questa occasione, anche sceneggiatore. Tutto gira intorno alla figura titanica (in senso fisico e intellettuale) di Luca Barbareschi, interprete, regista e produttore. Girato in inglese, avrà anche un’uscita statunitense, con il sottotitolo A rational man. Quale il suo filo conduttore? Dimostrare (con il valzer Barbareschi-Mamet) quanto siamo fragili, preda degli equivoci, in questo società condizionata dai rapporti con coloro che non sono eterosessuali, cioè gli inseriti nella comunità LGBTQ, lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer.

Eccolo, Barbareschi, con quella sua figura imponente che aveva già regalato al principe di Salina nella sua pièce teatrale L’ultimo gattopardo. Lo sguardo azzurro non lascia intravvedere dubbi nell’interpretazione del noto psichiatra Carlos David Hirsch, immerso nelle frenetica vita di New York che fa da sfondo alla vicenda. Ebreo, con l’aiuto di un rabbino sta anche approfondendo i suoi studi sulla Torah, le riflessioni sono indirizzate verso la definizione di giustizia e senso morale. Ma è costretto ad uscire da quei binari di studi capillari, quando uno studente, che è fra i suoi pazienti e si dichiara omosesssuale, è entrato in un aula universitaria sparando all’impazzata, e facendo vittime. E lui viene convocato come testimone al processo, dovrebbe dire che il ragazzo è stato condizionato dal suo essere giudicato diverso rispetto agli etero, e quindi non del tutto imputabile.

 

 

 

A causa di tutto questo, lo psichiatra si trova nei guai, perchè i giornali lo hanno messo alla gogna, scrivendo che ha definito una forma di “aberrazione” la scelta sessuale del ragazzo, anche se lui sostiene di averla descritta come una forma di “adattamento”. La situazione si fa sempre più complessa, i giornali lo attaccano, sottolineando una scarsa professionalità, anche se a un certo punto gli offrono di sottoscrivere una lettera in cui si scusano, mentre i giudici chiedono di voler visionare gli appunti dei colloqui con lo studente assassino, al fine di capire meglio. Ma lui non vuole consegnarli. Perché? Lo dice alla moglie, che sta soffrendo molto per quella situazione (Catherine McCormack), e anche al suo avvocato che lo afferma chiaramente: sta rischiando grosso, con il rifiuto alla consegna, ma Carlos continua a rifiutare questa scelta, dice che va contro il suo concetto di moralità. Perchè secondo lui il ragazzo è semplicemente un assassino, non c’entra l’omosessualità, non si possono evocare scuse, un delitto è un delitto. E mentre la sua vita si sta frantumando (la moglie gli confessa di averlo tradito con l’amico avvocato), noi sobbalziamo alla rivelazione che emerge dai ricordi degli appunti che non ha voluto consegnare.

 

 

 

Il ragazzo, poco prima della strage, avrebbe voluto liberarsi di quella pistola che gli scottava fra le mani, ma non trovò aiuto...Non possiamo spoilerare oltre. Resta il fatto che il film, ispirato a un fatto vero (e Barbareschi ha voluto dedicarlo a Jordan Peterson, uno psicologo molto attaccato per le sue critiche all’idealogia queer, è irritante, pruriginoso, scottante, del tutto simile al carattere di Barbareschi, tanto che resti indeciso se le battute micidiali sono del protagonista o invece vengono “dall’essere Barbareschi”, del tipo: «In un processo ogni parte porta in aula le sue puttane, poi la giuria fa vincere quelle col vestito migliore». E corrispondono alla sua leggenda, l’essere sempre contro tutti, ma riuscendo in un miracolo: l’appartenere al mondo dello spettacolo, dove tutti hanno reso ossequio al politicamente corretto, con lui mantiene le proprie scorrettissime idee.

 

 

 

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