Veronica Gentili, "ecco perché oggi lavoro nella tv di Berlusconi": dopo le critiche, un drastico cambio di scenario
Il pubblico la segue. E lei, Veronica Gentili, tira dritto: non si cura delle critiche (o, almeno, non di quelle gratuite...) e lascia che a parlare siano i risultati del suo lavoro, come i buoni ascolti di Controcorrente. Quella che si è appena conclusa è infatti la sua estate: Gentili si è imposta sul campo come volto di punta di Mediaset guadagnandosi un altro programma autunnale, tutto suo, dal titolo Buoni o cattivi.
Veronica Gentili, diciamo la verità: è lei il format.
«Non sarei proprio così netta (ride, ndr) anche se il talk show è effettivamente un genere che dipende dalla sensibilità del conduttore, dal clima che si riesce a creare in studio e, non ultimo, dal lavoro di preparazione che si fa a monte con gli autori. I temi infatti sono imposti dalla attualità: a cambiare sono l'angolazione scelta, l'aspetto che si decide di evidenziare, la chiave di lettura offerta...».
A Controcorrente gli ospiti non si parlano quasi mai addosso: come ci è riuscita?
«Se la temperatura del dibattito sale fa piacere a tutti, è inutile negarlo: il discorso ha più presa anche sul pubblico a casa. Tuttavia è fondamentale non farsi prendere dall'idea che quello che sta accadendo funziona. Se ci si parla addosso il discorso non è più intellegibile e questo non va bene. La mia prima priorità è farmi capire dal pubblico a casa».
Per questo, dopo gli esperimenti linguistici della prima puntata, avete optato per una formula più basica?
«Sì. I temi d'attualità erano già molto complessi. Abbiamo preferito semplificare mettendo al centro il dibattito».
Si dice che lei sia una stacanovista. E una tipa bella tosta.
«Il sistema mediatico è un tritacarne che può schiacciarti da un momento all'altro: devi per forza essere strutturata per sopravvivere».
La Fagnani l'ha già contattata per partecipare a Belve?
«Non ancora ma sono a disposizione! (ride, ndr) La definizione di belva ci sta tutta».
Con Controcorrente è arrivata la notorietà, ma anche le critiche: Aldo Grasso, Dagospia... Perchè il suo successo dà così fastidio?
«Ogni volta che qualcuno emerge in modo relativamente veloce (Gentili conduce da tre anni a questa parte, ndr) l'attenzione mediatica è maggiore. Fa parte del gioco, come le critiche: ci sarà sempre qualcuno che parlerà male dite, o è provocatorio o insinuante. Io rispondo sempre in un modo solo: con il lavoro. Anche se, onestamente, non ho ancora capito quale sia la critica che mi viene mossa nel merito: finora le osservazioni avanzate non attengono mai al mio lavoro di giornalista».
Passiamole in rassegna. Prima critica: che ci fa un'ex detrattrice di Berlusconi su Mediaset?
«Ho sostenuto determinate idee in un preciso momento storico e alla luce di quel contesto specifico. Non le rinnego proprio perché appartengono a quel passato. Semplicemente, oggi il mondo è cambiato, lo scenario politico è radicalmente mutato, il mio stesso ruolo è differente, ergo se continuassi a pensarla come prima sarei surreale».
Di lei Aldo Grasso ha scritto: «Non si può dire, ma si dice, che una bella presenza è meglio di niente». Possibile che ci si debba sempre giustificare per il fatto di essere belle?
«Ormai noi donne abbiamo finito le parole! Tra l'altro di solito questo genere di critiche vengono mosse a inizio carriera, quando non si sa bene cosa dire su una persona: è paradossale che si continui a farlo anche adesso. Per emergere nel giornalismo serve studiare ed essere professionalmente inappuntabile. Punto. Detto questo, non credo che mortificare l'estetica sia una forma di espiazione necessaria per svolgere il mio mestiere. Sarebbe come negare se stesse: la fisicità fa parte di noi».
C'è chi la definisce la Diletta Leotta dei talk show. Si riconosce in questa definizione o sperava in qualcosa di meglio?
«Più che altro non capisco il senso di tale accostamento. Ma va bene così: è un perfetto lancio pubblicitario, visto che Leotta sarà tra gli ospiti del mio nuovo programma Buoni o cattivi, in onda a settembre su Italia1!».
Di cosa si tratta?
«Sperimenteremo un nuovo format: in ogni puntata avremo una mia lunga intervista alternata a una serie di documentari, realizzati dal regista Roberto Burchielli. La parte talk serve ad aprire ulteriori scenari sul tema già sviscerato nei documentari. Nel caso di Diletta Leotta parleremo di violenza di genere, in primis rivolta alle donne».
Un tema attualissimo, soprattutto alla luce dei fatti di Kabul. Anche lei si sente ottimista come Conte sul futuro dell'Afghanistan?
«Non interfacciarsi con i talebani vorrebbe dire abbandonare la popolazione al suo destino, ma allo stesso tempo è complicato dialogare con un regime che vorrebbe essere moderato ma poi abolisce la musica per legge e nega i diritti delle donne... Di certo è stato molto ingenuo credere che, ritirando le truppe, non sarebbe successo nulla».
Sempre più persone nutrono poca fiducia nell'informazione: a torto o, in fondo, a ragione?
«L'informazione deve tornare a essere al servizio della notizia e del cittadino. Vuol dire che bisogna tornare a raccogliere in maniera certosina le informazioni per poi metterle insieme, senza pregiudizi. Solo a quel punto, ossia a quadro ricostruito, si può tentare una interpretazione. Altrimenti il racconto è falsato».
Mica facile in un mondo dove tutti si schierano...
«Se accade non è solo per la crescente polarizzazione delle idee ma perché le persone hanno bisogno di sentirsi rassicurate. Aderire a uno schieramento vuol dire avere una certezza. Purtroppo però alcuni fenomeni contemplano il non avere certezze e questo un giornalista deve accettarlo».