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Livio Berruti: "A 83 anni corro ancora la curva dei 200 metri nel corridoio di casa con il deambulatore"

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Alessandro Dell'Orto
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Livio Berruti - quello che correva con gli occhiali e si gasava in curva, quello che si allenava poco e sorrideva tanto, quello della mano nella mano con la gazzella Wilma Rudolph quando era ancora impensabile vedere bianchi e neri insieme - è stato l’eroe delle Olimpiadi di Roma ’60 e non solo per la meravigliosa medaglia d’oro sui 200 metri con il record del mondo eguagliato due volte. Livio Berruti è stato l’eroe di Roma perché da quel suo sorprendente trionfo l’Italia e gli italiani hanno capito che tutto era possibile, che si poteva rinascere, che la devastazione della guerra era davvero alle spalle e c’era spazio per nuovi progetti, nuove idee. Nuovi successi. Livio aveva 21 anni, quando ha indicato la strada da prendere. Ora ne ha 83 e si racconta con orgoglio e passione. Ma sempre guardando avanti.

 

 

 

Livio Berruti, le serve un aiuto per i gradini?

«No, no grazie. Ormai sono abituato a spostarmi con il deambulatore. Ecco fatto, mettiamoci pure qui al tavolino».

Problemi alle gambe?
«Acciacchi a causa di un incidente d’auto nel 1982. Ora la situazione è un po’ peggiorata, ma si supera anche questo».

Carattere e spirito battagliero non le mancano.
«Il vero atleta va oltre ogni ostacolo».

Le gambe che hanno fatto la sua fortuna ora la stanno tradendo: nei loro confronti c’è più amore o odio?
«Grande affetto, non do troppo peso a questa situazione, la considero un po’ una vendetta della natura. Una specie di pizzo da pagare. Anzi, le posso confessare una cosa?».

Prego.
«Avrà intuito che non sono tipo che si piange addosso. E allora sa cosa faccio ogni tanto a casa per sdrammatizzare?»

Riguarda i vecchi filmati?
«Ma no, cosa ha capito. Parto dall’ingresso e tic tic tic- a piccoli passettini veloci e aggrappato al girello percorro il corridoio e poi, simulando la curva dei 200 metri, entro trionfante in cucina da mia moglie. Come ai bei tempi».

Meraviglioso. Restiamo in casa: come è la sua giornata tipo?
«Leggo molto e di tutto, preferibilmente libri scientifici. E passo parecchie ore al computer».

Scusi?
«Sì, non si stupisca: sono discretamente tecnologico e sto cercando di riordinare in un archivio digitale le fotografie di una vita».

Televisione ne guarda?
«Programmi di Alberto Angela e molto sport».

A proposito, che ne pensa dell’oro europeo di Ceccarelli nei 60m indoor?
«Mi intriga questo ragazzo. Molto semplice, elegante, trovo mi somigli anche come struttura fisica. E poi...».

Poi?
«Non ha nemmeno un tatuaggio!».

Oplà, frecciata a Jacobs?
«Marcell ne ha tanti, ma a me non piacciono».

Come velocista, invece, Jacobs le piace?

«È bravo, molto potente, muscoloso. Costruito. Però preferiscofisici come quelli di Ceccarelli e Tortu».

Berruti, quelli del tavolino là a destra la fissano: l’hanno riconosciuta.

«Capita spesso e ogni volta mi sorprende come la gente si ricordi ancora di me a distanza di 63 anni».

La domanda più frequente? Scusi, perché ride?

«Mi chiedono tutti come andò a finire con Wilma Rudolph, insomma se dopo esserci presi per mano...».

Alt, non aggiunga altro che approfondiamo più tardi. Restiamo ai giovani d’oggi: come li vede?

«Mmmmm li trovo spaesati e confusi, legati soprattutto all’apparire: la tecnologia e i social offrono molte occasioni, ma tolgono curiosità. Fortunatamente c’è una minoranza che ama approfondire e capire».

Lei invece che giovane era? Anzi, torniamo al bambino Livio Berruti.
«Nasco a Torino il 19 maggio 1939. Figlio unico, cresco a Stroppiana dai nonni, nel Vercellese. Sono timido e appassionato di lettura».

Sono gli anni della guerra.
«Nel cortile di casa gli americani mettono la base operativa, la gente sta in fila per prendere il cibo. Ma noi ce la passiamo bene, fortunatamente non soffriamo la fame».

Il piccolo Livio si accorge subito di correre veloce?
«Con gli amici saltiamo i fossi, ci divertiamo. Quando per gioco inseguo i gatti, però, capisco che sono diverso dagli altri, molto più rapido».

E si dà subito all’atletica?
«No. Mi piace soprattutto il tennis».

Buon giocatore?
«Bravo a prendere le smorzate ovviamente: a volte arrivo così veloce a rete che non riesco a fermarmi e la devo saltare».

Altri sport?
«Salto in lungo e alto al liceo, poi pattinaggio a rotelle e su ghiaccio».

Già, perché intanto si trasferisce a Torino e frequenta il Cavour.
«Nel 1956, durante l’ora di ginnastica, incontro il miglior velocista della scuola. Ci sfidiamo e vinco io. Il professore allora mi porta ai campionati studenteschi, poi a quelli provinciali. Altri successi e inizio a gareggiare con continuità finché a Torino, un giorno, viene a correre Gigi Gnocchi, campione italiano del 100. In batteria mi mettono al suo fianco e faccio 11 netti».

Non male.
«Già, tanto che gli allenatori della Fidal mi invitano a un allenamento collegiale a Schio. È l’inizio della carriera sportiva e svolto».

In tutti i sensi, perché scopre la curva dei 200 metri.
«È amore a prima vista: sfidare la forza centrifuga, piegare il corpo, stringere verso l’interno mi dà immediatamente un senso di piacere, quasi erotico».

Diventa la sua specialità, ma le crea pure qualche problema.
«Un medico, amico di mio padre, legge su Tuttosport che a Schio mi hanno fatto correre i 200 metri».

Ed è vero? Come mai sorride?
«In realtà dovevo far da lepre a un altro velocista sui primi 100 metri in curva, ma visto che ero in testa ho proseguito fino alla fine dei 200 metri battendolo tra lo stupore di tutti».

Incredibile! Diceva del medico...
«Chiama casa e dice ai miei genitori che i 200 sono troppo faticosi per la mia struttura fisica. Così mio padre, diligentemente, prende carta e penna e scrive un’imperiosa diffida alla Federazione negando l’autorizzazione a farmi correre quella distanza».

Lei come reagisce?
«A me non viene detto niente. D’altra parte ho un patto con papà e mamma: se vado bene a scuola ho la libertà di fare quello che voglio. E così, dovendo iniziare l’Università e avendo saputo che a Padova la Facoltà di Chimica è molto buona, mi trasferisco in Veneto dove abbino anche il servizio militare entrando nella Polizia, che ha una squadra sportiva molto forte: le Fiamme Oro».

Le gare intanto vanno sempre meglio e dal 1958 diventa atleta internazionale.
«Mi invitano, e vinco sempre, ai meeting più rinomati come Zurigo, Varsavia, Duisburg. Due volte anche a Mosca, la seconda nella primavera del 1960».

Ha uno sguardo orgoglioso, di chi in Russia ha trionfato sia nei 100 che nei 200 metri...
«Non solo».

Ops, parliamo di donne?
«La sera delle gare, alla festa, mi ritrovo a ballare con Tonja Sofianovoi, la ragazza che mi ha appena premiato: bionda, bellissima. Parla nella sua lingua e non capisco niente, ma fortunatamente mi soccorre un atleta polacco, il mezzofondista Levandovski che, sapendo russo e inglese, mi dice: “Vuoi che le chieda se le va di venire in albergo con te?”. Poi sorride: “Ha detto sì, vai e divertiti”. Saliamo sul taxi, ma l’auto non parte».

Come mai?
«Ai sovietici in quel periodo è vietato socializzare con noi occidentali, il tassista minaccia di denunciarci. Così scappiamo e ci tocca aspettare il bus degli atleti».

Beh, però ne vale la pena no?
«A parte la falsa partenza...».

In che senso scusi?
«Io e Tonja siamo finalmente in camera, le offro una macedonia portata dall’Italia mentre la fisso negli occhi e faccio per sedermi, ma l’emozione è tale che pum, precipito a terra tra il letto e una sedia. Bel modo di rompere il ghiaccio... Fortunatamente poi recupero».

Diventa un fidanzamento serio?
«Diciamo soprattutto epistolare. Lei mi scrive, ma non ho tempo di rispondere e delego mio padre».

Ahahah, ma come?
«Sì, sì, per un lungo periodo affido a lui la gestione delle lettere delle ammiratrici».

Ne ha molte in quegli anni?
«Italiane, svedesi, russe, vengo spesso inseguito ma sono esigente. E amo la libertà: quando, dopo 2 o 3 uscite, mi chiedono di andare a conoscere i genitori, sparisco velocemente».

Libertà che poi abbandonerà incontrando Silvia, la sua attuale moglie.
«Ragazza di cultura umanista completamente insensibile alle medaglie sportive: ha accettato la mia corte perché nel mio studio non c'erano trofei, ma troneggiavano i 6 volumi della Storia del pensiero filosofico scientifico di Ludovico Geymonat. Siamo sposati dal 1998».

Torniamo al 1960. Roma, 3 settembre, Olimpiadi.
«Atmosfera magica in un periodo storico particolare. È l’Italia della ricostruzione, sono anni di ideali, sogni».

Il suo si avvera alla svelta: semifinale e record del mondo eguagliato con 20”5.
«Torno negli spogliatoi e penso: “Forse sono andato troppo forte, mi sono stancato per la finale”».

E che fa?
«Niente, mi rilasso. Mentre gli altri si riscaldano mi siedo su una panca, poi salgo in tribuna per osservare tutti dall’alto. Infine, • quando è il momento della gara, torno in pista per provare un paio di partenze. E stringo la mano a tutti gli avversari, uno a uno, prima di mettermi ai blocchi».

Gesto calcolato per spiazzarli? Lo ammetta.
«Ma no, tutto improvvisato: solo educazione sabauda».

Poi lo sparo, i passi veloci, l’amata curva, l’arrivo e il trionfo. Berruti è medaglia d’oro olimpica e primo europeo che batte gli americani nei 200 m ripetendo il record mondiale: 20”5. Chiuda gli occhi e scelga un’immagine che rappresenti quell’impresa.
«L’abbraccio all’arrivo con Abdoulaye Seye, terzo. Tra noi c’era feeling».

Un suono di quella finale?
«Gli applausi dopo la gara. Perché durante la corsa il cervello seleziona i rumori: senti il passo degli avversari dietro dite, ma non il boato del pubblico».

Qualche curiosità. Correva con gli occhiali: miopia o sole?
«Mi mancavano 4,5 diottrie, senza avrei tirato dritto in curva...»

Le scarpe erano speciali?
«Ma no, per me erano tutte uguali. Pensi che a Roma ho usato un paio di vecchie Valsport bianche solo perché si abbinavano al colore delle calze».

Quanti passi ha fatto in quei 200 metri?
«Boh, mai contati».

Livio, restiamo al dopo gara. Lei diventa subito un eroe.
«All’uscita dallo stadio capisco di aver fatto qualcosa di speciale: la gente mi chiama, mi cerca. Il giorno dopo, per strada, una signora mi porge un mazzo di fiori: “Grazie per la gioia e la speranza che ci ha dato”».

Eroe, ma anche simbolo della lotta al razzismo: la foto di lei mano nella mano con Wilma Rudolph, regina nera della velocità (lei vinse tre ori), diventa un manifesto storico dell’integrazione.
«Il suo allenatore mi dice: “Wilma vorrebbe scambiare la tuta”. Ci incontriamo, lei parla un inglese che io non capisco, ma comunichiamo con sguardi e sorrisi e poco dopo, senza nemmeno rendercene conto, stiamo passeggiando per il villaggio olimpico mano nella mano, anticipando di tre anni Martin Luther King e il suo sogno di integrazione».

 

 

 

Berruti, è il momento di rispondere a chi la ferma per strada: con Wilma poi è successo qualcosa?
«No, perché quando il giorno dopo mi presento al villaggio delle donne per cercarla e passare dalla fase platonica a quella aristotelica, scopro l’amara verità: l’avevano già imbarcata per gli Usa. Sa, si diceva che su di lei avesse messo gli occhi un certo Cassius Clay...».

Forse meglio così, allora... Mai più rivista?
«Anni dopo, ma accompagnata dal marito».

Livio, parliamo di mani: lei amava stringerle prima della gara e in generale come saluto. Che ricordo ha di quella di Wilma?
«Una presa molto stretta».

Altre particolari?
«Quelle ruvide e forti dei lanciatori di peso e dei lottatori. E poi ce ne è una morbida, morbidissima, che non dimenticherò mai: la mano di Papa Giovanni XXIII».

Torniamo alle gare. Dopo l’exploit olimpico viene soprannominato “l’angelo” per la leggerezza della falcata. Le piaceva?
«Non troppo, ma sempre meglio di “Abatino”, nomignolo che Brera diede a me prima che a Rivera».

Perché quel sorriso?
«Una volta Brera mi invita a cena da lui sul lago di Pusiano. Sapendo della passione per i vini arrivo con una scorta di rossi piemontesi da me imbottigliati per sfidare quelli dell’Oltrepò Pavese. Inizia lui con i suoi. Stappa il primo, annusa e fa una smorfia: «Sa di tappo». Seconda, terza bottiglia e stessa smorfia. Imbarazzato per la figuraccia, non mi ha mai più inviato».

Dopo Roma ’60 lei partecipa anche alle Olimpiadi di Tokyo ’64 e Città del Messico’68.
«In Giappone ci vado solo perché Ottolina nel 1963, in un'intervista, dice incautamente: “Berruti è finito”. Ovviamente arriverà dopo di me... In Messico sono convinto di fare bene, sono in gran forma, ma vengo fregato proprio dall’altura: impossibile concentrarsi».

Livio, guardi queste fotografie prese dall’album dei ricordi.

«Qui sono con Gimondi alla Sei Giorni di Milano. Dei campioni della bici come lui ho sempre ammirato la capacità di fare fatica».

Il mondo del ciclismo però, qualche anno fa, l’ha massacrata per una dichiarazione su Pantani.

«Avevo detto che è stato un esempio negativo. Non mi pento».

In questa foto è con Boniperti.

«Ottima amicizia: il primo telegramma ricevuto dopo il trionfo a Roma è stato il suo».

Guardi qui: Jesse Owens.

«Al suo fianco si avvertiva grande personalità».

Berruti, tante foto ma nessuna con Mennea: martedì sarà il decennale della sua morte.

«Pietro era chiuso e scontroso, suscettibile. Non siamo mai andati particolarmente d’accoro perché eravamo agli antipodi: io vivevo di slanci dilettantistici, lui ha portato all’esasperazione il concetto del professionismo; io correvo con il sorriso, lui sempre tormentato e sofferente».

Livio, lei smette nel 1969 a 30 anni. Poi lavora per un’agenzia pubblicitaria, per Zegna e alla Fiat. Ma nel 1982...

«Sto tornando da Brescia, sono le 2.30, al casello di Milano mi slaccio la cintura per stare più comodo e penso: “Tanto solo un imbecille si addormenta alla guida”. Boom. L’imbecille ero io e ne sto pagando ancora le conseguenze».

Berruti, ultime domande veloci.

1) Ultimo libro letto?

«Il telaio magico. Brevi lezioni sul cervello di Giulio Maira».

2) Film preferiti?

«Quelli storici, di fantascienza o farciti di scanzonata e goliardica ironia francese e inglese».

3) Musica?

«Jazz e romantica. Uno dei miei miglior amici era Franco Cerri».

4) Un momento indimenticabile extra sport?

«Vedere Armstrong mettere piede sulla Luna».

5) Rapporto con la religione?

«Sono agnostico».

6) Paura della morte?

«No».

7) La cazzata che non rifarebbe?

«Sorpassare auto alla cieca a tutta velocità nella nebbia, come facevo andando a trovare Donatella Zingone (poi diventata moglie di Dini n.d.r.), con la quale avevo un flirt».

8) La cazzata che invece rifarebbe?

«Il corso per pilotare l’aliante».

9) Lei non ha figli. Che padre sarebbe stato?

«Molto severo».

Ultima: cosa vorrebbe che si ricordasse di Livio Berruti tra 100 anni?

«Che ha fatto sport per divertimento. E sempre con il sorriso». 

 

 

 

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