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Jannik Sinner? Una tradizione italiana: quanta invidia per i numeri uno...

Francesco Specchia
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Niente è più odioso della fortuna degli altri, diceva Scott Fitzgerald che, sotto la pioggia dell’invidia sociale spense la fiamma del talento. Non accadrà con Sinner. Jannik è allampanato, educatissimo, saettante, l’unico altoatesino a non parlare come le Sturmtruppen. Somigliante da piccolo – coi quei boccoli rosso tiziano - ad Alessia Marcuzzi, e da grande a Richie Cunningham, ha trasformato in maestri di tennis tutti gli italiani, anche quelli che scambiano di solito una racchetta per un arricciacapelli. Per la prima volta mio figlio, invece della Playstation mi ha chiesto due biglietti per il Roland Garros, mia moglie tiene la sua foto sospettosamente in borsetta. Sinner è un campione assoluto, l’orgoglio della nazione dentro e fuori dal campo.

Ma allora perché, a meno di 24 ore dopo l’incontro con Giorgia Meloni, è già diventato bersaglio dell’invidia concentrica di una parte della nazione? Gli ascoltatori di Prima pagina su Radio 3 erano tutti lì, a sfruculiare sulla sua mancanza d’empatia; il Corriere della sera ne rilevava con sarcasmo la residenza fiscale a Montecarlo e i lettori invitano il tennista a versare le tasse in Italia; molti improvvisati commentatori sottolineano che –pur tecnicamente ineccepibile- Jannik è privo di carisma («vuoi mettere Panatta o Pietrangeli?»).

 

 


Il fatto è che, in Italia, passati i fuochi del primo entusiasmo, si tende a sfrigolare nell’invidia. Ora travestita da indignazione, ora ammantata da moralismo, ora traslata in ideologia, l’invidia sociale per i “numero uno” resta l’invidia più invidiosa di tutte. È una liturgia tribale, ma ci sono passati tutti: da Tamberi a Jacobs, da Mennea a Federica Pellegrini, per non dire delle star del calcio: li eleviamo tutti al cielo, per poterne ascoltare, dopo, il tonfo della caduta. Eppure. Eppure, agli strali fiscali contro Sinner («perché non porta i 30 milioni di stipendio in Italia?») si potrebbe tranquillamente rispondere che, nel suo caso, l’amor di patria è solido. Sinner è l’italiano cosmopolita, e come tutti i grandi tennisti rappresenta un brand globale che legittimamente –se ci vive- può avere perfino domicilio fiscale a Monacò senza perdere un briciolo di patriottismo. Sinner non ha carisma? Tradotto significa: è troppo rispettoso, troppo bravo ragazzo, non è stronzo, laddove, però, molti confondono la buona educazione con la cazzimma. Sinner, a 22 anni, diffida dei social network perché «lì dentro non c’è la verità», e fa apparire idioti gli influencer?

Gli rispondono che non rappresenta la sua generazione, ma in realtà è proprio la sua generazione che ha bisogno di identificarsi in Sinner, con tutto quel senso sacrificio a cui abbiamo smesso di abituarci. Sinner non ci pensa nemmeno ad affogare nella canea del Festival di Sanremo? Vuol dire che se la tira. Se per «tirarsela» s’intende evitare un palcoscenico inutilmente stroboscopico per un atleta; o scegliere di stare con la propria famiglia «senza la quale non ce l’avrei mai fatta», a godersi tranquillo la vittoria. Sinner non è una pagina di storia patria, è un intero romanzo di formazione. Sinner, a differenza di Fitzgerald, non ha l’anima fragile esposta ai venti dell’altrui invidia e intolleranza. Resisterà a lungo, nonostante i suoi tifosi... 

 

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