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Max Biaggi, la rivelazione: "Un incontro al bar mi ha trasformato in campione delle moto"

Hoara Borselli
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Max Biaggi, romano, 52 anni, noto anche come “Il Corsaro”, è una leggenda italiana del motociclismo. Uno dei campioni che ha vinto di più nella storia di questo sport. Quattro mondiali con la 250 e poi due mondiali in superbike. L’amore di Biaggi per la velocità lo ha portato ad essere detentore del guinnes world record di velocità su una moto elettrica in Florida: 470,257 km/h. La sua è una storia incredibile...

Max, tu da ragazzino non ci pensavi alle moto, giocavi a calcio. È vero? 
«Verissimo. Sono cresciuto in un ambiente dove si respirava calcio. Mio padre allenava una squadra giovanile della zona. Mi ero appassionato e volevo fare il calciatore».
Come sono entrate poi le moto nella tua vita? 
«Fino a diciassette anni non sapevo nulla di moto. Non sapevo neppure che esistessero dei campionati di motoclismo. Poi, un pomeriggio, mentre stavo al solito bar con gli amici, arriva uno di loro con la sua moto fiammante, la livrea, la tuta, il casco, i guanti... Rimasi folgorato».
E cosa hai fatto? 
«Gli chiesi se potevo accompagnarlo alla pista di Vallelunga dove correva. Rimasi a guardarlo girare in pista affascinato».

 

 

 


Un colpo di fulmine? 
«Nel vero senso della parola. Arrivato a casa raccontai la giornata a mio padre e gli chiesi di comprarmi una moto».
Cosa ti rispose? 
«Mi chiese se ero diventato matto. Aveva troppa paura. Non ci pensava proprio. Ho insistito e aspettato lunghissimi mesi. Poi...».
Poi? 
«Mi disse questa frase che non scorderò mai: “Ok Max, la moto te la compro ma ad una sola condizione: solo dopo che avrai racimolato i soldi per poterti compare gli accessori”. Ed erano costosissimi».
Come hai fatto a mettere su quel gruzzolo? 
«In quel periodo studiavo. L’unico modo era trovare velocemente un lavoretto che mi consentisse di guadagnare e raggiungere la cifra necessaria».
Che lavoro hai trovato? 
«Ho fatto il pony express».
Consegnavi lettere? 
«Sì, per tutta Roma. Uscito da scuola fino alle nove la sera. Mese dopo mese misi via un bel po’ di soldi».
Sei arrivato alla cifra necessaria? 
«No. Una sera mio padre, vedendo l’impegno che ci stavo mettendo, mi disse che non importava a che cifra fossi arrivato. La differenza ce l’avrebbe messa lui».
Si stava avverando il tuo sogno. 
«Si è avverato il giorno del mio diciottesimo compleanno. Mio padre mantenne la promessa e mi consegnò le chiavi della mia prima moto. Ricordo che la andammo a ritirare al concessionario per farmi spiegare come funzionasse, come si mettevano le marce».

 

 

 


Una volta salito sulla moto cosa hai fatto? 
«Ho chiesto di andare subito a provarla in pista: a Vallelunga. Quel giorno, il primo giorno in sella alla mia moto nuova, accadde ciò che mi ha cambiato per sempre la vita».
Cosa? 
«Iniziai a girare, a provarla, a fare rettilinei e curve. Mio padre mi guardava divertito. A un certo punto gli si avvicinò un amico che gli disse: “Pietro, da quanto corre tuo figlio?”. “È il primo giorno che sale su una moto”. L’amico era Alberto Ieva, campione italiano delle 50 cc. E disse a mio padre: “Ferma tuo figlio, devo parlargli”».
E tuo padre? 
«Mi chiese di accostare e mi presentò Alberto che senza tanti giri di parole mi disse: “Vedi queste tre curve in sequenza? Tu sbagli perché vai troppo veloce sulla prima, penalizzi la seconda, esci piano alla terza. Puoi fare molto meglio. Prendici la mano, attento a non cadere e fammi vedere cosa sai fare”».
E tu cosa hai fatto? 
«Dopo due, tre giri, feci tutto ciò che mi aveva detto. Controllò il cronometro e constatò ero sceso tantissimo di tempo. Prese mio padre e gli disse: “Tuo figlio deve correre! Ha talento. Fallo correre”».
Il finale del film lo conosciamo tutti. Sei diventato il campione dei campioni in pochissimo tempo. 
«Non me lo so spiegare neppure io come sia stato possibile».
Normalmente i grandi campioni di questo sport iniziano giovanissimi o sbaglio? 
«Iniziano anche a quattro anni. Loris Capirossi è diventato campione del mondo a sedici anni mentre io fino ai diciotto non ero mai salito su una moto».
Tuo padre è stato protagonista indiscusso nella tua vita, vero? So che ti ha lasciato qualche anno fa. 
«Il rapporto con mio padre è stato stupendo. Un super papà. Basti pensare che quando si è separato da mia mamma io decisi di stare con lui. Per sei anni siamo stati insieme, finchè mi sono trasferito a vivere a Montecarlo».

 

 

 


Che padre è stato per te?  
«Ti faccio un esempio per fartelo capire. In tutti gli anni che abbiamo vissuto insieme non si è mai fatto vedere davanti a noi figli con una nuova compagna. Io e mia sorella sapevamo che frequentava delle persone ma mai davanti a noi».
Mi dici come sei riuscito in così poco tempo a passare dal non conoscere il cambio di una moto a diventare un campione? Solo talento? 
«La mia perseveranza è stata quasi diabolica. Ho cambiato radicalmente la mia vita. Basta uscite, basta discoteche pomeridiane con gli amici. Solo Vallelunga e ore e ore inchiodato a guardare filmati di moto cercando di recuperare il tempo che avevo perso».
La tua ascesa così inaspettata e tardiva, non è stata inizialmente colta di buon grado dai tuoi colleghi, o sbaglio? 
«Non sbagli. Capirossi, come t’ho detto, a sedici anni già era campione del mondo delle 125. E soli tre anni dopo ci siamo trovati a gareggiare nel mondiale delle 250 e l’ho battuto. All’inizio il clima intorno a me era molto ostile».
Sei entrato in modo troppo dirompente e improvviso?
«Non solo quello. C’è un altro motivo secondo me ancora più determinante».
Quale?
«Nel mondo delle moto i grandi campioni erano tutti del Nord. Dall’Emilia Romagna in giù c’era il vuoto. Ero il primo che aveva scardinato un sistema appannaggio solo del Nord Italia. Essere romano e macinare successi è stato un motivo di grande diffidenza nei miei confronti».
Il 9 giugno del 2017 un terribile incidente cambierà per sempre la tua vita. Undici costole rotte di cui due che ti hanno lacerato un polmone. Diciassette giorni in terapia intensiva. Coma. Hai avuto paura di morire?
«Il professore che mi ha operato per ben due volte disse che da quel trauma solo il 20 per cento delle persone ne escono vive. Ho avuto paura di morire. Mi è passata davanti la mia vita come quei vecchi rullini delle macchine fotografiche. Ho capito che non siamo invincibili, che tutto può cambiare da un momento all’altro. Ho cambiato le mie priorità. Figli, famiglia e affetti sono diventati l’essenziale. Tutto il resto un contorno. Uscito da quell’ospedale non ero più lo stesso».
Poi c’è la tua meravigliosa amicizia con Fabrizio Frizzi.
«Non voglio essere banale ma lui è stato veramente un fratello per me. Padrino di mia figlia. Persona straordinaria ed importantissima».
Come hai vissuto la sua prematura morte?
«Fabrizio era una persona talmente meravigliosa che credo sia stato mandato sulla terra per compiere una missione. Una volta terminata lo hanno riportato in cielo. Ha fatto del bene a talmente tante persone che non c’è altra spiegazione».
Insieme ad Eleonora Pedron da cui ti sei separato hai avuto due figli. Che padre sei?
«Tanto coraggioso in pista, quanto timoroso che possa succedere loro qualcosa. Ci passo moltissimi giorni al mese. Quando sono con me non voglio né tate né cuochi. Io e loro nella nostra assoluta esclusività. Mi ci dedico completamente».
Oggi sei ambasciatore in giro per il mondo del marchio Aprilia. Stai a stretto contatto con le nuove leve, i giovanissimi piloti del futuro. Noti delle differenze tra i giovani di ieri e di oggi?
«La differenza la fa la tecnologia. Il telefonino, i social. Oggi i ragazzi non montano in sella se prima non hanno postato sui social ciò che stanno facendo. Telefono in mano anche durante le prove come se non riuscissero a fare nulla se prima non lo raccontano».
Ricordi la canzone che diceva “Ogni ricordo è più importante condividerlo che viverlo”. È così?
«Io penso che sia più importante essere che esserci».

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