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Atalanta, il "cattivo" Gasperini: ecco come ha portato la Dea così in alto

Leonardo Iannacci
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A Dublino, la città di James Joyce, lo scrigno magico nel quale il grande poeta irlandese ha composto il suo capolavoro l’Ulisse - Gian Piero Gasperini ha finalmente trovato la sua Itaca. L’approdo che pareva impossibile. Non l’aveva mai raggiunto perchè le sue Odissee nel mondo del pallone si erano sempre fermate in porti sconosciuti a un trionfo. Con la sua Atalanta, colui che Pep Guardiola ha definito il “principe dei dentisti” per il modo in cui le sue squadre sanno far male agli avversari in campo, Gasperini ce l’ha fatta. Ha conquistato il primo trofeo della sua lunga ed esaltante avventura in panchina. I tedeschi del Bayer non perdevano una partita dai tempi delle guerre napoleoniche ma ieri si sono arresi al cospetto di una Dea allenata da un nobile condottiero.

FINALMENTE!
Gasp è riuscito finalmente ad alzare un trofeo - e che trofeo! - santificando così gli otto anni trascorsi sulla panchina dell’Atalanta, riportata prima al centro del villaggio calcistico ed ora lassù in alto, sul trono d’Europa. Non è la Champions, d’accordo, ma è come se lo fosse, e l’importante è accettare questa meravigliosa notte europea con lo stesso atteggiamento tenuto in tutti questi anni, ovvero con l’equilibrio tanto caro a Rudyard Kipling, lo scrittore indiano che sentenziò: «Solo se saprai accettare la vittoria e la sconfitta, questi due impostori, allo stesso modo, sarai un vero uomo». Gian Piero Gasperini, che uomo vero è, si è commosso sotto il cielo d’Irlanda anche se sa bene cosa significa vincere o perdere nello sport. Negli ultimi anni ha soltanto sfiorato la parte felice di quello che è il concetto caro a Kipling: a Bergamo ha seminato e raccolto due finali di Coppa Italia, tre terzi posti e un quarto, tre qualificazioni consecutive alla Champions League fino ai quarti di finale (persi contro il Paris St Germain) nel 2020 e agli ottavi di finale nel 2021 (persi contro il Real Madrid), conquistando però vittorie epocali sui campi di Liverpool, Ajax, Valencia e Shakthar. Gasp è uomo di mondo e mai avrebbe pensato, vent’anni fa, quando allenava le giovanili della Juventus, di scrivere alla fine una pagina così seducente nella complicata vicenda del calcio moderno.

 

Con l’Atalanta, che nulla aveva vinto in questi rutilanti otto anni ma molto ha insegnato al mondo del pallone, questo 66enne di Grugliasco, marito di Cristina e padre felice di due figli, è stato il centro di gravità permanente attorno al quale arrivavano, stupivano e poi magari ripartivano verso altri lidi tanti campioni da lui guidati e rigenerati: da Papu Gomez a Ilicic, e poi Bastoni, Kulusevski, Kessie, Zapata, sino agli attuali gioielli Scalvini e Ruggeri, De Ketelaere e Koopmainers, Pasalic e Kolasinec. Prima, al Genoa, aveva rivitalizzato gente del calibro di Milito e Thiago Motta mentre nei tre mesi alla guida dell’Inter non aveva trovato il modo né il tempo per imporre il proprio calcio fatto di pressing, marcature rigidamente a uomo, aggressività che sconfina in una vincente ossessività. Lo ammira De Laurentiis, e questo lo si sa, ha estimatori ovunque, anche all’estero, ma il “dentista” caro a Guardiola ha risposto andreottianamente a chi lo vede lontano da una Bergamo mai così Alta come nei suoi anni: «Mi chiedete se il calcio ha logorato Gasp? Spero solo che Gasp non abbia logorato chi ce l’ha». Di se stesso del suo carattere non semplice, del suo modo di affrontare la vita e il pallone con tackle duri ma vincenti, Gasp ha detto: «Difficile sopportarmi? Il calcio è una materia di confronto, non sempre si è d’accordo, ma si possono creare delle basi per crescere e migliorare». Non vincere, magari, ma diventare campioni della panchina sì.

 

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