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Euro 2024, Mister Tonfo ci risparmi l'agonia: serve un passo indietro di Spalletti

Pietro Senaldi
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A sentirlo parlare, in queste tre settimane di avventura tedesca all’Europeo, ricordava Joe Biden nel confronto con Donald Trump, con la differenza che Luciano Spalletti si è fatto male da solo; e se si riascoltasse, lo capirebbe anche lui. Del suo eloquio non si intendeva nulla, trasparivano solo una gran confusione e tanta incertezza. Poi ieri una cosa chiara l’ha detta: «Non me ne vado, non scendo di sella». Sarebbe forse allora opportuno che qualcuno gli levasse il cavallo di sotto, perché ha dimostrato di non sapere cosa farsene. Lo sorregge il presidente della Federazione Calcio, Gabriele Gravina, ma solo perché, se lo cacciasse, dovrebbe poi andarsene pure lui, che lo ha assunto dopo aver, nell’ordine, salvato, disgustato e perso Roberto Mancini.

L’operazione di ringiovanimento della Nazionale che il commissario tecnico ha annunciato forse dovrebbe iniziare proprio da lui e dalle sue 65 primavere, anche se l’età è l’ultimo dei problemi. Nella conferenza stampa l’allenatore ha sparato palle in tribuna, almeno lui ce l’ha fatta, a differenza dei suoi prodi. Ha detto che qualcuno non avrebbe tirato i rigori, se necessario, ma siamo arrivati ben lungi da quella meta. Ha spiegato che la cosa più importante è stata la telefonata di sua figlia, che lo ha consolato mentre il resto degli italiani erano intenti a consolare i loro. Ha buttato lì che fino alla qualificazione era andato tutto bene, ma in un Europeo a 24 squadre, dovrebbe essere scontata per l’Italia.

Non abbiamo nulla conto l’uomo e per continuare a non volergliene gli consigliamo di fare quello che tutti gli altri commissari tecnici presenti in Germania avrebbero fatto al posto suo, un passo indietro. Assumersi le responsabilità è andarsene dopo un fallimento così clamoroso, non restare assicurando di aver finalmente capito cosa non andava e di «pensare di sapere cosa fare per tentare di mettere in pratica quel che ho in testa». Lezioni e situazioni vanno apprese per tempo, al volo, non a contrario, dopo gli errori: quello sono capaci tutti di farlo; la differenza tra un vincente e un perdente in fondo sta tutta qui. Questo vale ancora di più se fondi sui valori e sugli ideali la tua narrazione sportiva. Non esistono uomini verticali che si fanno cuneiformi.


La Nazionale di Spalletti ha fatto innamorare del tennis, del motomondiale, della pallavolo femminile quello che è sempre stato un Paese di malati di calcio. Anche questo dovrebbe avere il suo peso. Quando, a settembre, il commissario tecnico siederà in panchina per evitare all’Italia la terza eliminazione consecutiva dalla fase finale di un Mondiale, dopo Russia 2018 e Qatar 2022, quanti tifosi avranno fiducia in lui? E soprattutto, quanti calciatori? Questo è stato il più dolente dei tasti del disastro con la Svizzera. Non avevamo una squadra di fenomeni, ma gli azzurri non sono neppure così scarsi come dicono i risultati. Gente che gioca con la bava alla bocca tutto l’anno, sabato è entrata in campo nella massima manifestazione che può capitare a un calciatore dopo un Mondiale svogliata, appesantita nella testa prima che nelle gambe, pronta ad andare in vacanza piuttosto che a sputare sangue per andare avanti.


Questo azzeramento cerebrale, tattico e agonistico di uomini dei quali oggi possiamo pure pensare il peggio, ma che tutto sommato sono dei professionisti non arrivati per caso, non può che essere imputato all’allenatore, il quale dev’essere il grande motivatore in ogni Nazionale. Antonio Conte, otto anni fa, era arrivato a giocarsi l’accesso alla semifinale ai rigori contro una Germania campione del mondo in carica schierando in attacco il tridente Giaccherini-Pellé-Zaza. Significa che avere idee chiare, saper comunicare ai giocatori certezze e dare gli stimoli giusti può portare lontano. È esattamente quello che è mancato a Spalletti, che ha cambiato sei o sette formazioni in quattro partite, nelle quali è sempre passato in svantaggio. Ha giocato con una punta, due, tre, senza che nessuna facesse mai goal. È passato dalla difesa a tre a quella a quattro, per poi tornare a tre, senza riuscire mai a difendersi con efficacia né a lanciare all’attacco gli esterni. Gli esperti dicono che lui è un ottimo allenatore e ha una grande idea di calcio, il football posizionale, dove i giocatori si scambiano ruoli e responsabilità. Ma in Germania lui non è riuscito a dirigere l’orchestra e ha fatto solo gran confusione, con calciatori fuori ruolo che non si scambiavano nulla. Gli esperti dicono anche che ha portato dieci difensori per fare il suo gioco, poi quando la Spagna l’ha preso a pallonate si è messo paura e ha rivoluzionato tutto, ritrovandosi senza gli uomini giusti per cambiare.
Di certo è quello che si dice un visionario, che nel mondo del calcio non è parola denigratoria. Solo che la Nazionale ha bisogno di uno che arrivi, scelga le persone giuste, le faccia giocare nel loro ruolo, le convinca di essere dei campioni, dica loro esattamente cosa fare anziché confonderle a parole e nei fatti, improvvisando improbabili girandole in campo che lasciano la palla agli avversari. Non è il punto più basso mai toccato dagli azzurri, ma non ci siamo andati troppo lontano. E dopo un verdetto così, i supplementari per il commissario tecnico sarebbero inutili e per i calciatori e i tifosi diventerebbero un’agonia.

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