Simone Inzaghi non è Mourinho: perché può ripartire

di Claudio Savellilunedì 2 giugno 2025
Simone Inzaghi non è Mourinho: perché può ripartire
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La differenza tra José Mourinho nel 2010 e Simone Inzaghi ora è che il primo aveva già deciso di lasciare l’Inter a prescindere dal risultato della finale mentre il secondo non aveva deciso un bel niente.
Mourinho si era ritagliato il tempo per sé, Simone lo ha dedicato tutto all’Inter. Hanno provato in tutti i modi ad avvelenare la lunga vigilia di Monaco ponendogli la stessa tediosa domanda a oltranza ma lui non ci è cascato. Ha sempre risposto gentilmente e in totale trasparenza che nei prossimi giorni avrebbe incontrato la società per parlarne.

È facile essere lucidi, sereni ed educati nella routine. Lo è meno alla vigilia di una finale in cui ti giochi la stagione. Anzi, ti giochi un quadriennio. È in questa capacità di essere zen anche nel momento apicale che si misura la grandezza di Simone Inzaghi. Se la finale di Istanbul era un dono, quella di Monaco era un obiettivo.

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Quella bisognava godersela, questa bisognava vincerla. Non ci è riuscito. Per la maggior parte dei tifosi nerazzurri e, soprattutto, per la società, non cambia niente. Inzaghi non aveva bisogno di questa Champions per consacrarsi. Serviva al mister per togliersi il peso di chi continua a indicare le sconfitte, ignorando le vittorie come questa finale, la seconda negli ultimi tre anni. Perché queste sono vittorie. E non è retorica da quattro soldi. In finale bisogna arrivarci e l’Inter lo ha fatto due volte senza avere le stesse armi di chi non ci arriva nemmeno. Anche senza la coppa, l’evoluzione di Inzaghi è completa. Da giovane allenatore a navigato manager. Così, per la prima volta, Simone porrà delle condizioni all’Inter.

È giusto che lo faccia perché non è più l’allenatore inferiore alla storia del club nerazzurro: ne è all’altezza. Ne fa addirittura parte, anche senza sigillo europeo. È un salto di qualità propedeutico alle riunioni dei prossimi giorni in cui chiederà gli investimenti che merita di ricevere. Non su di lui, no, lo stipendio non gli è mai importato più di tanto, ma sull’Inter. Ecco, se è vero da un lato che perdere la finale di Champions può azzerare le motivazioni, dall’altro questa sconfitta offre a Inzaghi una ragione in più per ripartire.

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Già alla vigilia ha ammiccato alla permanenza con quel «qui ho tutto ciò di cui ho bisogno», anche se non è vero che l’ha avuto. Qualche risorsa è mancata, altrimenti sarebbe arrivato lo scudetto che gli sarà rimasto sullo stomaco molto più di questa Champions. Smaltita la delusione, Inzaghi alzerà lo sguardo e si accorgerà che Conte sarà di nuovo a Napoli, dunque ci sarà occasione per prendersi una bella rivincita, e che Allegri, che lo scorso anno passò settimane a provocarlo, è tornato al Milan. C’è pane per i denti di Inzaghi. Se sceglierà di andare altrove, accettando i soldi dell’Arabia o della Premier, beh, allora le critiche saranno lecite. Cambierà - anzi, è già cambiato - l’atteggiamento dell’Inter nei confronti del suo allenatore. «Siamo pronti a fornirgli risposte», ha detto Marotta. Se il livello dell’allenatore si è alzato, deve alzarsi anche quello della rosa per consentirgli di faticare meno. Insomma, Inzaghi ha portato l’Inter a un passo dalla Champions. Ora è l’Inter a doverci riportare Inzaghi.