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Ucraina, la proposta ai miei figli: che dite, lo adottiamo un bambino ucraino?

Iuri Maria Prado
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L'altra sera discutevo coi miei figli della possibilità di accogliere un bambino ucraino. Mia figlia, 11enne, ha detto "Sì". L'altro, 15 anni, "No". Ho riflettuto su quel dissidio. So bene che, se la cosa si fosse poi realizzata, mio figlio sarebbe stato premuroso anche più della sorella, e si sarebbe prodigato per dare accoglienza al piccolo ospite. Ma qualcosa di incontrollabile si poneva per lui a intralcio della spontaneità con cui mia figlia, al contrario, diceva "Sì". Era la debolezza, l'insicurezza che gli dava la sua propensione di maschio a fare elevare quel "No", la violenza spaventata che in lui determina il comando biologico a farglielo pronunciare meccanicamente. Tanto quanto nella bambina lavorava l'opposto intendimento, l'assoluta noncuranza per i motivi di allarme che invece assediavano il fratello: «Ma è un estraneo! E poi dove dorme?».

 

 

 

Quel ragazzino era il maschio fragile obbligato da una spinta ancestrale a marcare il territorio, a proteggersi e a proteggere la propria cerchia da un'intromissione temibile. Diversamente, per comando opposto, reagiva la sorella, forte di una padronanza dei propri spazi che non si esprimeva nel dovere di proteggerli.

 

 

Quel ragazzo era già implicato nel girone ineluttabile della violenza; e, sia pur non pienamente formulato, aveva il profilo dell'uomo che fa la guerra. E c'era invece l'urgenza della madre nella fibra di quella bambina. Ai due, ho detto infine che non saremmo stati noi a fare un regalo al piccolo profugo, ma lui a noi. E sono sicuro che lo capiranno, un giorno.

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