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Walter Veltroni a Libero: "Il mio Pd si è perso e la sinistra mi fa soffrire"

Andrea Tempestini
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D'accordo, il Pd è in coma, un po' come Giovanni, il personaggio della sua ultima fatica letteraria, Quando (Rizzoli), colto da malore ai funerali di Berlinguer, nel 1984, e risvegliatosi oggi. Ma Walter Veltroni, che del Pd è il fondatore, rifiuta di vestire i panni della suora, della psicologa o del fisioterapista che nel romanzo aiutano il protagonista a risintonizzarsi con se stesso e mettersi in armonia con il mondo cambiato. D'altronde lui è il padre, Ettore, che nel libro se n'è già andato, dopo aver segnato la via da seguire. Aveva tanti progetti per quel figlio entrato in stato vegetale, «ma le cose non sono andate come avrei voluto», riconosce alla vigilia dell'ennesima direzione Pd per discutere del futuro dopo la sconfitta in Sicilia. «Ho smesso e non torno, l'ho detto e lo faccio, anche se nessuno ci crede: l'unico incarico che ho accettato è nel consiglio dell'Unicef», si ritrae l'uomo che molti danno come una l'ultime speranza di ricompattare la sinistra. «Perché, crede ai giornali?» insiste. «Quando ne dirigevo uno, ci trovavo scritte cose su di me che non avevo mai detto. Parliamo del libro». Giovanni entra in coma ai funerali di Berlinguer, ma quando si sveglia è del tutto disinteressato alla politica: morto il comunismo è impossibile sostituirlo? «Il Pci sfugge alle semplificazioni, è stato qualcosa di particolare, ospitava ideologicamente anche i non comunisti. Aveva il 35% dei voti ma non si può dire che un italiano su tre volesse la dittatura del proletariato e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Era una scelta politica, non ideologica, un'intenzione di cambiamento, alla Gaber. Aveva un'originalità che non si è dissolta con la fine del comunismo». Chi sono oggi gli eredi di questa «intenzione del volo», per restare con Gaber? «Non ci sono eredi, la storia ha fatto un salto. La cosa più sbagliata per la sinistra sarebbe pensare che tra ieri e oggi ci sia una linea senza interruzione. La tecnologia e la crisi hanno cambiato i paradigmi. Nel mio libro, che è anche metaforico, c'è una rottura tra la vita di Giovanni prima del coma e dopo il risveglio. Suo malgrado il protagonista è costretto a cambiare tutto, perfino gli affetti più intimi. Piange e soffre, ma ha anche voglia di farlo». Il suo Pd però avrà un erede? «Ho cercato in ogni modo di creare un partito di massa che non nascesse da una scissione, come sempre accade a sinistra, ma da un incontro. Devo constatare invece che per la sinistra è fisiologico dividersi e farsi del male». Il presidente del Senato, Grasso, ha detto di aver lasciato il Pd renziano per Mdp perché oggi è quello il vero Pd. Sbaglia? «Vivo con grande sofferenza questo momento. Ho lavorato tutta la vita per cercare di unire e costruire una sinistra riformista che fosse orgogliosa della propria identità». Prodi ha piantato la tenda fuori dal Nazareno. La sua dov'è, ancora ai funerali di Berlinguer? «Il mio progetto politico lo lanciai al Lingotto. Allora la sinistra era in una situazione drammatica, al 22%, peggio di oggi, sfinita da un'esperienza di governo che aveva visto insieme Mastella e Turigliatto, con i ministri in piazza contro l'esecutivo, Napoli sommersa dai rifiuti... In un anno arrivammo al 35%». Come ci riuscì? «Offrendo agli elettori la prospettiva di una sinistra che non fosse più costretta a svolgere una funzione ancillare, con alleanze spurie, ma puntasse a un consenso più ampio di quel 25% che era sempre stato il suo limite. Ho aperto alle diversità e le ho fatte convivere, come accadeva nel Pci e nella Dc, partiti più complessi di come vengono ricordati. C'eravamo arrivati, ora è tutto più complicato». Conviene a tutti: sotto elezioni la sinistra si ricompatterà... «Mi piacerebbe, ma non ci scommetto». Questione di contenuti o di conflitti personali? «Il confine è labile. Diciamo che l'assenza di conflitti personali aiuta l'unione mentre le rivalità lavorano per la divisione a prescindere dai contenuti. Non pensi che a destra le cose vadano poi diversamente: le ricordano qualcosa Fini e Bossi?». A destra l'elettorato è più compatto e i leader fanno prevalere l'interesse della squadra… «Non ci conti troppo, le alleanze spurie non reggono, le divisioni a un certo punto pesano. Ma noi siamo qui per il mio libro…». Nel libro il protagonista è introdotto alla modernità da un tredicenne che, non casualmente, si chiama Enrico: non si riesce proprio ad andare oltre Berlinguer? «Confrontarmi con l'attualità con gli occhi di un neonato cinquantenne mi ha permesso di liberarmi di ogni sovrastruttura. Enrico è la coscienza critica della storia ed è giusto sia così. Evoca un tempo in cui c'era rispetto tra i partiti. Ora il rispetto dell'idea altrui è estranea al dibattito politico. Dc e Pci fecero fronte comune contro il terrorismo, oggi in politica prevalgono i seminatori d'odio». Adesso? Veniamo da vent'anni di antiberlusconismo selvaggio. «Berlusconi ha le sue colpe. Non dimentichiamoci che ha definito “coglioni” tutti quelli che votavano a sinistra. Chi dice basta all'antiberlusconismo deve dire anche basta al libro nero del comunismo». Nella sinistra c'è un ritorno dell'antiberlusconismo. Può essere, al solito, il collante giusto? «Sarebbe un errore. Un caposaldo del mio progetto era il superamento di una sinistra che si basasse sull'antiberlusconismo. Tra i miei sbagli forse c'è pure questo. Se avessi continuato con lo schema della contrapposizione ideologica avrei avuto meno problemi. Ma non è nella mia natura». C'è una demonizzazione a sinistra di Cinquestelle e della destra populista: chi la spaventa di più? «Non ragiono così. M5S, Lega, Fdi esprimono culture che hanno pieno diritto di cittadinanza nel dibattito politico. Nessuna di queste forze ha progetti dittatoriali. Quello che mi preoccupa è la continua evocazione della paura, un mostro facile da cavalcare ma difficile poi da governare. Vedo fattori destabilizzanti nella società, per questo faccio un richiamo alla politica, e al giornalismo, a elevarsi sopra la rissa. Anche voi con il titolo, “Per stendere Renzi bisogna sparargli”...». È un modo di dire, è quasi encomiastico. Renzi ci ha difesi... «Il titolo vent'anni fa non avrebbe avuto questo effetto. Ora c'è più tensione, capisco le preoccupazioni». Non è un po' troppo facile prendersela sempre con i giornalisti? «Sì. Aggiungo che se per un suo articolo lei riceve 300 commenti critici o entusiastici bisogna sempre ricordare che si tratta di 300 persone di trecento persone in un Paese di 60 milioni di abitanti. Tutti sbagliano a enfatizzare. Credo che Moro e Berlinguer ricevessero centinaia di lettere di minacce ma le riponevano nel cassetto, non le davano in pasto alla stampa. Mi preoccupa l'odio messo in piazza». A me preoccupano ancora di più i politici che ci hanno criticato senza aver letto l'articolo: ho l'impressione che molti di loro non abbiano idea di cosa fare per il Paese e pensino di guadagnarsi lo stipendio dicendo banalità… «Che molti non abbiano idea di cosa stanno a fare lì può essere vero. La politica oggi si fa a randellate, salvo poi mettersi d'accordo». È per questo che non torna? «Non torno perché avevo detto che me ne sarei andato e l'ho fatto». Il personaggio del suo libro è entrato in coma che aveva tutto e si è svegliato senza passato con di fronte un futuro breve e incerto: che cosa la preoccupa di più dell'Italia di oggi? «Il rischio peggiore è precipitare nell'ingovernabilità, e leggi elettorali senza premio di maggioranza finiscono per garantirla. Quando persi le elezioni dissi a Berlusconi che ero pronto per cercare un'intesa che garantisse una democrazia dell'alternanza ma non mi ascoltò. Non è un aspetto da sottovalutare, Calamandrei diceva che le democrazie muoiono per l'incapacità di decidere». Vede la democrazia a rischio? «Non è detto che si salvi. È considerata più un peso che una forma naturale di esistenza. Oggi dev'essere tutto veloce, ma la democrazia ha natura processuale. La politica si salva se recupera profondità». Prima pensavo che attaccasse Mdp, ora mi pare le dia a Renzi… «Sto parlando del destino del Paese. Non le do a nessuno, tantomeno a Renzi o Grasso che stimo». Quando si è rotto l'incanto tra Renzi e il Paese? «Il referendum è stata un'occasione persa da tutto il Paese, non solo da Renzi. Non può considerarsi chiusa la partita delle riforme istituzionali. Per il bene dell'Italia il capitolo va riaperto». Nel libro, Giovanni scopre che dopo il crollo del Muro di Berlino sono nati in Europa un sacco di nuovi Paesi: la Ue sembrava più unita allora che oggi? «Sono un europeista, senza Europa persisterebbero rischi elevatissimi di guerra. Ma non posso negare che la Ue oggi non ha un progetto e ha interrotto il proprio cammino». Come si riparte? «Il punto d'arrivo non può che essere gli Stati Uniti d'Europa, sul modello degli Usa. Tanti Stati, ciascuno con una sovranità articolata e politiche fiscali e di difesa comuni, non uno solo che comanda per tutti. Dopo la caduta del Muro di Berlino sembrava che alle porte un ordine mondiale basato su grandi aggregazioni continentali. Oggi c'è un tale caos che la situazione può sfuggirci di mano come accadde ai nostri nonni negli anni Trenta». Perché la sinistra è in crisi? «La sinistra è in crisi in tutto il mondo perché non è riuscita a cambiare con i tempi. Funzionava in una società strutturata per classi, nel mondo di oggi, strutturato su vite frammentate, non è ancora riuscita a elaborare una proposta politica convincente. Ma la crisi riguarda tutta la politica: nessuno ha capito gli effetti antropologici del mutamento in corso, paragonabile per dimensioni alla rivoluzione industriale inglese. Oggi va di moda chi protesta, ma non è una soluzione». Non va poi neppure tanto di moda: le urne sono deserte… «Infatti, la protesta e l'odio non generano passioni. È la passione che ti fa votare. Saint-Exupery diceva che se vuoi intraprendere un viaggio devi far venire ai marinai voglia di costruire la nave. Non vedo nel mondo progetti politici degni di questo nome. L'ultimo è stato quello di Obama». Lei ha tradito i suoi marinai, ha mollato il viaggio? «Non c'erano le condizioni interne perché io continuassi, sarebbe stato sbagliato ostinarsi». Ogni riferimento all'attuale segretario e alla direzione di domani è puramente casuale? «È normale che nei partiti si discuta, devono farlo. Non facciamola più drammatica di quella che è. Le è piaciuto il libro, si ride, si piange?». Mi è piaciuto, ma l'ho trovato straziante e malinconico. «Però tende verso il bene». di Pietro Senaldi @PSenaldi

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