La Scala inaugura la stagione con Lady Macbeth del distretto di Mcensk, l’opera che nel 1936 fece indignare Stalin e costò a Šostakovic la celebre condanna della Pravda. Allora fu scandalo vero, rivolto verso la satira sociale e la musica violentissima del giovane autore. Oggi, quasi un secolo dopo, ciò che sconvolgeva non scuote nemmeno una monaca di clausura. Alla Scala trionfa la musica: Chailly, orchestra, coro e gran parte dei solisti sono semplicemente magnifici, dominano la partitura con precisione, potenza e brillantezza timbrica. È il vero evento della serata. Il libretto, invece, mostra tutti i suoi anni: è una sequenza di ingenuità e di grotteschi involontari. Il prete che annuncia «È morto» dopo che il suocero (il bravissimo Alexander Roslavets) ha già esalato l’ultimo respiro è da antologia del naïf. Dal 1934 a oggi, molta acqua è passata sotto i ponti, e molte situazioni risultano inevitabilmente datate.
SCENA DIVISA IN DUE
La scena è divisa in due: un ristorante anni ’50 e una cucina laterale, mentre Katerina, davanti a un ufficiale di polizia, rivive la vicenda in continui flashback. È un’idea pulita, leggibile e ben realizzata – ma manca la Russia rurale, la brutalità contadina, il paesaggio morale del romanzo. Nel 1950 questi personaggi appaiono quasi anacronistici: si dichiarano incolti, primitivi, arretrati, ma immersi in un ambiente urbano che non giustifica più nulla. Sul piano vocale, Sara Jakubiak domina Katerina con voce tagliente e grande presenza scenica. Il monologo del primo atto è un vertice interpretativo. Ottimo il suocero, repellente e perfetto; Sergej (Najmiddin Mavlyanov) è abbastanza laido da risultare credibile e canta con sicurezza. Vociferante il cuoco del III atto. Il nodo della serata è comunque la regia: le “scene forti” annunciate non turbano nessuno.
Le molestie alla cuoca sono accennate, lo stupro di Katerina è simulato con pantaloni e gonne ben chiusi, le frustate sono finte, l’erotismo inesistente. È il classico “vorrei ma non posso” che contraddice la ferocia della musica. Barkhatov non scandalizza: standardizza e si limita a offrire una regia elegante, ma prudente, politically correct, piena di déjà vu. In un’epoca in cui la realtà supera da anni il teatro, pensare di scioccare con così poco è una tenera illusione borghese. Se si vuole davvero comprendere la forza della Lady Macbeth di Šostakovic, occorre ricordare che questo titolo nacque come denuncia, non come esercizio estetico. L’opera metteva in scena una società schiacciata da prepotenza, ignoranza, brutalità quotidiana.
PARALISI
Il pubblico del 1934 rimase paralizzato da quella verità, e Stalin – che non tollerava la realtà nemmeno fuori dal palcoscenico – reagì come tutti i dittatori: censurando. Eppure, proprio quell’eccesso di sincerità aveva reso il lavoro un capolavoro. Oggi che ne resta? Molto della potenza musicale, pochissimo dell’impatto sociale. La regia contemporanea tenta di supplire con immagini che vorrebbero essere “forti”, ma che alla fine risultano solo ripetitive. Assistiamo da anni alle stesse identiche soluzioni: il sesso meccanico, l’aggressione rituale, le luci intermittenti, il branco maschile, la protagonista vittima di umiliazioni standardizzate. Un codice visivo applicato a tutto, da Don Giovanni a Rigoletto, da Traviata a Lucia.
RISULTATO
Il risultato è che il vero scandalo non arriva più dalla scena, ma dalla distanza fra questa routine registica e la radicalità della musica. L’orchestra della Scala, in questo senso, ricorda allo spettatore ciò che il teatro dovrebbe ancora avere il coraggio di essere: spietato, sincero, senza protezioni. Perché Šostakovic, con tutti i suoi limiti e le sue ingenuità, non ebbe paura di niente. Chi lo mise in scena oggi, invece, sembra averne fin troppe. Il terzo atto contiene i momenti migliori: la scena della festa è splendida, il coro è un miracolo di precisione; il freeze prima dell’arresto e l’irruzione della camionetta verso la Siberia sono davvero teatrali. Ma il finale con le due donne bruciate invece che annegate lascia davvero perplessi. In conclusione: la Scala vince grazie alla musica, che resta di livello planetario. La regia, corretta ma timida, non osa, non sconvolge, non incide. Il vero scandalo del 2025 non è ciò che vediamo in scena: è che il teatro, oggi, sembri avere paura di essere davvero feroce come la partitura di Šostakovic.




