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Piazza Affari, "non accadeva dal 2008": movimenti clamorosi

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Michele Zaccardi
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L’Italia che cresce in Europa più di Francia e Germania dà fastidio. Parecchio. Soprattutto se il Pil tricolore in espansione dell’1,1% nel 2023 - contro il +0,8% dei francesi e addirittura il -0,3% dei tedeschi- è frutto delle scelte in materia economica di un governo di centrodestra. La tabella diffusa martedì dal Fondo monetario internazionale che ridisegna la geografia economica della Ue e ci colloca davanti alla ex locomotiva d’Europa brucia. Così scendono in campo i poteri forti della finanza con l’obiettivo di rimetterci al nostro posto.

La controffensiva mediatica è partita ieri. A lanciare i primi siluri sono stati l’immancabile Financial Times con un articolo di analisi firmato dall’economista tedesco Moritz Kraemer e direttamente il Fondo monetario che nel documento finale pubblicato ieri sul nostro Paese, a conclusione delle consultazioni con le nostre istituzioni, mette in fila una serie di raccomandazioni che puzzano tremendamente di vendetta trasversale.

Innanzitutto, attenzione all’andamento dei tassi scrivono gli economisti newyorchesi nel rapporto, scoprendo l’acqua calda se la Bce dovesse alzarli troppo vi sarebbero inevitabili ripercussioni per l’economia tricolore. Ma questo si sapeva. Lo stanno scrivendo i giornali del Belpaese da svariati mesi. E allora, ecco il carico da novanta: «Una flat tax sul reddito potrebbe avere implicazioni avverse e portare a una significativo calo delle entrate e dell’equità». Mentre è necessario «continuare a rafforzare la compliance fiscale» e «aumentare la soglia delle transazioni cash e introdurre sanatorie sui debiti fiscali non è d’aiuto». Peccato che, almeno finora, le misure in materia economica e fiscale adottate dal governo Meloni - incluse quelle stigmatizzate dal Fondo monetario - abbiano contribuito a ridare slancio al nostro sistema produttivo.

A rassicurare il Fondo ci ha pensato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: «Accogliamo con il giusto ottimismo e attenzione le valutazioni del Fmi», ha spiegato, aggiungendo che l’esecutivo continuerà «sulla strada della prudenza, responsabilità e realismo perseguendo l’obiettivo della riduzione del debito pubblico con l’attenzione verso persone e famiglie più vulnerabili e senza trascurare l'indispensabile crescita per rilanciare l’economia italiana, che mostra la sua solidità e resilienza rispetto agli eventi avversi». Sul Financial Times, invece, l’economista tedesco Moritz Kraemer bacchetta l’esecutivo per non aver firmato il Meccanismo europeo di stabilità, il Mes, accusando la premier Giorgia Meloni di aver rifiutato «la perdita di sovranità implicita». 

Kraemer arriva a insinuare che «parte della classe politica italiana» possa essere tuttora ossessionata dalla «famosa lettera del 2011 inviata dall’allora presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet al defunto Silvio Berlusconi». Missiva che indusse alle dimissioni Berlusconi, «sostituito dal tecnocrate Mario Monti». Per l’economista tedesco «il rifiuto di ratificare il Mes è un atto irrazionale di autolesionismo», con il quale l’esecutivo Meloni tiene «in ostaggio il resto dell’Europa». Alla fine, arriva a scrivere Kraemer, «l’Italia si comporta come uno che si punta una pistola alla tempia, gridando che se non ottiene ciò che chiede, premerà il grilletto». Forse è esattamente il contrario, ma a Kraemer piace raccontarci così. 

Fa più effetto. Ma c’è di più: il direttore esecutivo di Scope Ratings, agenzia di rating con sede a Berlino, arriva anche a immaginare una possibile ritorsione. Se non aderiamo al Mes, conclude, «non è ragionevole che l’Italia possa beneficiare, forse più di ogni altro paese, dello strumento di protezione» messo in campo «dalla Bce» che «consente a Francoforte di acquistare in modo selettivo titoli di Stato di un Paese membro che sta subendo pressioni in vendita ingiustificate» sui titoli del debito sovrano. Roma non firma? E allora la Bce venda subito tutti i nostri titoli pubblici in portafoglio. Più o meno quel che accadde nel 2011. Allora a vendere furono le banche tedesche. Ma questo, alla fine, è un dettaglio che Kraemer non ritiene di dover menzionare.

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