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Spread in salita, la Meloni non c'entra: ecco di chi è la colpa

Gianclaudio Torlizzi
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Prevedibili e sempre uguali. La maniera con la quale l’amata Mina bollava gli uomini intonando Acqua e Sale potrebbe essere utilizzata anche oggi, con un po’ di licenza giornalistica, nel descrivere la reazione, scomposta, di alcuni commentatori davanti l’ampliamento dello spread tra il rendimento del Btp decennale rispetto al Bund tedesco. È bastato infatti che lo spread raggiungesse i 200 punti base per far partire un fuoco di fila contro la politica economica del governo messa sul banco degli imputati per aver spostato al 2026 l’anno di rientro al di sotto della soglia del 3% all’interno della nota di aggiornamento al documento di programmazione economica, Nadef, per gli addetti ai lavori.

A preoccupare alcuni “esperti” in particolare giungerebbe lo scostamento dell’indebitamento netto previsto per prossimi 3 annidi circa 23,5 miliardi. Sia chiaro, ai mercati le sorprese notoriamente non piacciono. Ma, nel caso specifico della Nadef, il differenziale tra andamento tendenziale programmatico era largamente atteso. E infatti basta leggere le note inviate ai clienti lo scorso week end dalle banche d’affari per rendersi conto di come non esista un’emergenza sui conti pubblici italiani agli occhi degli investitori internazionali. Bank of America, solitamente non molto tenera nei nostri confronti, per fare un esempio, evidenzia come il raggiungimento dello spread a 200 punti base sia il riflesso di una dinamica generale che trova riscontro nelle vendite che hanno colpito i mercati azionari internazionali e gli stessi Bund tedeschi il cui rendimenti hanno toccato il massimo dal 2011. Sulla stessa lunghezza d’onda JP Morgan secondo cui l’aumento dell’indebitamento netto nel 2023 dal -4,5% al -5,3% del pil non andrà a incidere sulle proiezioni relative alle emissioni del debito per quest’anno.

LE DINAMICHE IN ATTO
Questo non significa naturalmente sottovalutare le dinamiche finanziarie in atto. Ma pensare che la tenuta dei conti pubblici italiani dipenda da poco più di 20 miliardi distribuiti in 3 anni, utilizzati tra l’altro per dare un sostegno a famiglie attraverso il taglio del cuneo fiscale, sa un po’ di pretestuoso. Per avere un quadro più aderente alla realtà occorre invece uscire dai confini italiani e comprendere le dinamiche in atto che stanno portando i grandi investitori a ridurre l’esposizione nel mercato obbligazionario tout court al punto che quest’ultimo triennio si chiuderà come il peggiore mai registrato dai Treasury in termini di performance dalla guerra di Indipendenza americana! Il punto è che il mercato sta realizzando come le pressioni inflazionistiche a cui assistiamo dal 2020 sono di natura strutturale e non ciclica e che non basterà un ulteriore inasprimento della politica monetaria per ritornare al target inflazionistico del 2% testardamente difeso dalle banche centrali, Bce in primo luogo. Certo, i prezzi dell’energia e dei materiali si sono fortemente raffreddati rispetto ai picchi del 2022, ma le tensioni sul lato dell’offerta sono così forti che non si tornerà sulle quotazioni pre-pandemiche a causa degli effetti legati alle politiche climatiche e del processo di separazione dell’economia mondiale in due blocchi contrapposti. Il raggiungimento del prezzo del petrolio a quasi $100 al barile è un chiaro segnale in tal senso.

IL CIRCOLO VIZIOSO
Dinamiche queste che spingono i governi europei ad adottare politiche espansive sul piano fiscale per dare sollievo a famiglie a imprese. Ma è un circolo vizioso: l’aver spinto sull’accelerazione della neutralità climatica infatti non solo sta disincentivando i nuovi investimenti nell’energia fossile (necessari ancora per decenni fino a che non avremo sviluppato una sufficiente generazione da fonte nucleare) ma ci rende ancora più vulnerabili alle azioni di militarizzazione sulle materie prime adottate da altri Paesi. A queste preoccupazioni si aggiungono poi quelle legate al mercato del lavoro. L’endorsement del presidente Biden alle richieste dei lavoratori nel comparto auto (+40%) apre a uno scenario di generale aumento dei prezzi. Che fare dunque? Davanti a un contesto tanto complesso la soluzione non potrà che passare per l’implementazione di politiche monetarie di natura ibrida: restrittive sulla curva a breve ma espansive su quella a lunga accompagnandole alla revisione degli obbiettivi climatici. Così facendo si proteggerebbe lo standing finanziario del dollaro e dell’euro, garantendo al tempo stesso le condizioni per effettuare investimenti sia nel comparto dell’energia che della Difesa. Il tutto condito dalla revisione dei target climatici, seguendo la strada tracciata da Londra e Tokyo. Rimanere ancorati ai vecchi modelli equivarrebbe ad assistere impotenti all’attuale processo stagflazionistico che nell’Eurozona si sta già traducendo in de-industrializzazione e frammentazione. 

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