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Manovra, la sinistra contro Meloni? Ma sono stati loro a moltiplicare il debito

Sandro Iacometti
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È un mondo strano quello che ieri si è scagliato contro la legge di bilancio messa a punto dal governo. Da una parte c’è chi, come l’ex ministro Elsa Fornero, non trattiene la voglia, dopo aver preso schiaffoni da chiunque, compreso il giornale che ora pubblicai suoi articoli in prima pagina, di gridare ai quattro venti che aveva ragione lei, che la tagliola sulle pensioni annunciata con tanto di lacrime alla fine del 2011 era la scelta giusta, al punto che persino il centrodestra, acerrimo nemico della riforma, ha deciso di non smantellarla.

Dall’altra ci sono i quotidiani progressisti e le opposizioni che, dopo aver passato l’ultimo anno a lanciare allarmi sui disastri che avrebbero provocato alcuni punti del programma elettorale del centrodestra, ora mettono sotto accusa il governo per non aver mantenuto quelle catastrofiche promesse. Un mondo strano, perché la prof Fornero, che ora critica la manovra per il mancato slancio verso la crescita e il rinunciatario rispetto delle attese dei mercati e della Commissione europea nel 2011 ha partecipato ad un governo che non solo ha agito sotto dettatura di quell’Europa e di quei mercati che avevano fatto cadere l’esecutivo guidato da Berlusconi, varando una manovra tutta tagli e tasse, ma neanche è riuscito ad ottenere l’obiettivo. Lo spread nel 2012 ha continuato a viaggiare su livelli stratosferici, la crescita è finita sotto i piedi (pila -2,4%) e il debito pubblico è, guarda un po’, schizzato dal 119 al 126%, con ben 92 miliardi in più sul groppone del bilancio dello Stato.

 

 

 

IPOTECA SUL FUTURO

Già, il debito. È tutta lì la chiave per capire i numeri e lo spirito della finanziaria. Siamo stati i primi, ieri, a dire che alcune cose si potevano evitare, dal taglio della rivalutazione delle pensioni più alte (che sono quelle interamente coperte dai contributi), all’aumento delle tasse sugli affitti brevi, che va a colpire i piccoli proprietari di casa. Così come non entusiasmano neanche l’aumento delle accise sui tabacchi, quello delle imposte sugli immobili e sui conti all’estero e l’incremento della tassa di soggiorno per il Giubileo. Tutti interventi che, per diversi motivi, un governo di centrodestra poteva risparmiarsi, anche perché non è che portino montagne di soldi nelle casse dello Stato. Detto questo, l’impossibilità di smussare la legge Fornero, anche se sembra che il dibattito nella maggioranza sul tema sia ancora aperto e non si possano escludere sorprese, non riguarda i rapporti interni alla coalizione né il rapporto con gli elettori. Riguarda l’eredità lasciata da chi oggi punta il dito.

Eh sì, perché l’ipoteca sul futuro scaturita dall’accoppiata di tecnici Monti-Fornero non si è affatto arrestata con la loro uscita dall’esecutivo. Il governo Letta nel 2013 ha portato il debito al 132% del Pil (+81 miliardi), quello Renzi lo ha fatto salire al 134% (+215 miliardi), più o meno la stessa percentuale lasciata in eredità da Paolo Gentiloni, che però ha aggiunto altri 44 miliardi di buco. Le cose non sono andate molto meglio con il primo governo Conte (+55 miliardi), ma il grosso della montagna del rosso di bilancio, complici ovviamente la pandemia e la guerra, lo hanno prodotto i governi Conte II e Draghi. Grazie anche alla sospensione del patto di stabilità i due premier hanno accumulato 346 miliardi di debiti in più, portando la percentuale sul pil al 144%. Spese necessarie? Forse. Certo è che gli 859 miliardi (ottocentocinquantanove!) di indebitamento aggiuntivo accumulati dal 2011 ad oggi, tra l’altro con i tassi di interesse a zero e lo spread quasi sempre a livelli molto bassi, ora pesano come un macigno non solo quei giovani di cui parla sempre la Fornero, ma anche sulle opzioni che sono sul tavolo del governo.

 

 

 

LA TRAPPOLA

Ma pensiamo davvero che, avendone la possibilità, il governo non avrebbe scardinato la gabbia previdenziale ideata dai professori guidati da Monti? La realtà è che la riforma Fornero è una trappola: ha creato delle aspettative di decrescita della enorme spesa pensionistica (circa 300 miliardi nel 2022) nell’arco dei prossimi decenni con cui tutti i futuri governi dovranno confrontarsi. Ed ogni virgola che si tocca sulla flessibilità in uscita costerà in futuro decine di miliardi in più capaci di far sballare tutte le stime prospettiche del bilancio dello Stato.

Non è un caso che quell’indicatore sia uno dei primi che le agenzie di rating e la Commissione Ue guardano nell’emettere i loro giudizi. E non è un caso che il governo abbia deciso di muoversi con grande cautela su quel terreno. Oggi qualcuno ha anche accusato l’esecutivo di voler stangare i millennial con le modifiche sulle pensioni. In realtà, per i contributivi puri la legge di bilancio elimina i vincoli esistenti per quelle di vecchiaia (oggi non basta avere 67 anni, ma serve raggiungere una certa soglia di assegno) a fronte di una stretta su quelle anticipate. Muovendosi proprio nell’ottica di una stabilità del sistema pensionistico che fino a ieri tutti ritenevano necessario tutelare.

 

 

 

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