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Mikhail Gorbaciov, così lo hanno usato per nascondere la verità sull'orrore rosso

Iuri Maria Prado
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Non che fosse imprevedibile, anzi, ma il tono di certi elogi funebri per l'ultimo capo della dittatura sovietica spiega meglio di un trattato a quali riflessi di ipocrisia possa giungere la persistente realtà postcomunista di questo Paese. Pressappoco, è come se fosse morto un campione in versione cirillica dell'Eurocomunismo pre-arcobaleno e da cinepanettone progressista, un leader buono e saggio eretto a testimone di una verità prima ingiustamente rinnegata e cioè che dopotutto quel sistema era capace di dar fuori qualcosa di buono.

 

 

Poco importava che si trattasse di un furbacchione - abilissimo, e a suo modo certamente coraggioso - che faceva dilagare nel mondo, ben pagato, l'idea falsa di un'oppressione da assolvere non perché meno oppressiva, ma perché più sorridente e paciosa, e la legittimazione del pregiudizio per cui era questione di attitudini umane, non di organizzazione politica, di spirito umanitario, non di scelta civile e costituzionale, se una società decideva di porsi per o contro la libertà, per o contro il progresso, per o contro il sistema democratico mai conosciuto negli inferni di quei paradisi socialisti.

 

 

Ha detto e fatto cose importanti, Gorbaciov, ed è un eminente del '900: ma l'immagine che qui se ne propone è quella di un illuminato statista del mondo buono che illustra il siparietto da sinistra provincial-veltroniana con Kennedy, Berlinguer e Peace&Love e il Muro di Berlino venuto su chissà come e tirato giù mica perché altrimenti da quella parte cominciavano a mangiarsi la segatura fatta coi calci dei Kalashnikov, ma perché il vero comunismo, quello equanime, sapeva anche generare dei rappresentanti capaci di aprirsi al mondo e liberare le proprie ansie di libertà: spiegando il vero senso della libertà ai liberisti selvaggi.

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