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La tragedia delle Ande: "Ci chiamavano cannibali, volevamo solo vivere"

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Tommaso Lorenzini
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«Vengo da un aereo caduto in montagna. Sono uruguaiano». Con questa frase, gli esausti Fernando "Nando" Parrado e Roberto Canessa chiesero aiuto, con un biglietto avvolto in un sasso scagliato al di là di un fiume, al mulattiere Sergio Catalan, primo uomo incontrato dopo aver trascorso 70 giorni in montagna, a 4.000 metri, resistendo a temperature fino a -40°C. I due uruguaiani, poco più che ventenni, erano membri della squadra di rugby dell'Old Christians Club di Montevideo, a bordo del Fairchild dell'Aeronautica uruguaiana diretto in Cile e precipitato sulle Ande per un errore dei piloti, il 13 ottobre 1972. A bordo in 45, si salvarono in 16 dopo 72 giorni di privazioni, fame, freddo, vivendo nella carcassa del velivolo travolto anche da una valanga. Gli aerei di soccorso li sorvolarono più volte senza vederli: la fusoliera bianca si confondeva con la neve. Le autorità sospesero le ricerche, le famiglie non si arresero ma ogni tentativo di trovarli fallì. Rimasti senza viveri, i superstiti si convinsero che cibarsi dei cadaveri dei compagni era l'unica speranza. Ma, quando fu chiaro che nessuno li avrebbe mai trovati, dopo 60 giorni Parrado e Canessa decisero di provare ad andarsene dal luogo dello schianto con la promessa di tornare a salvare gli amici. Ci riuscirono. Oggi, 50 anni dopo, Parrado condivide con Libero i ricordi di una delle più grandi storie mai raccontate, che ha ispirato decine di libri e film come "Alive".

 

 

 

Nando, cosa le resta di quei giorni?
«Non penso alla tragedia ogni mattina. Semplicemente, apprezzo la vita che ho».

Lei ha raccontato di aver «attraversato le porte dell'inferno». I compagni la considerarono morto per due volte, tanto che si è convinto in quei giorni di essere predestinato a salvare i suoi compagni. E così è stato. Ma ha sempre detto che non si sente un eroe.
«Non ci sono eroi, ma situazioni difficili nella vita. A seconda del risultato, le persone ti vedono come un eroe... ma sono la stessa persona che ero prima dell'incidente».

La Fede e anche i valori del rugby vi hanno unito anche quando il gruppo era sull'orlo dello sfinimento.
«Quando le cose si mettono davvero male e non c'è possibilità di sopravvivenza, la preghiera aiuta molto: chi ha fede ha speranza. Ci sono stati pure momenti di allegria: pochi...ma hanno aiutato a combattere la depressione».

In quei giorni siete diventati una sola famiglia, pur con 16 storie personali diverse. C'è stato qualcuno più importante fra voi per consentire a tutti di non impazzire e andare avanti?
«L'importante era la fiducia che ciascuno aveva negli altri. E ognuno è stato importante per il risultato finale. Solo io e Roberto sappiamo quanto ci è costato uscirne... e penso che senza quell'odissea oggi sarebbe diversa anche la storia della Cordigliera».

Il 9 dicembre è il suo compleanno, ha festeggiato il 23esimo su quelle montagne. Le fecero un regalo?
«Mi hanno dato la forza di uscire e affrontare l'impossibile. Mi abbracciavano dicendo "Cela farai!". Ma non conoscevano la paura che avevo e i terribili dubbi su ciò che avrei dovuto affrontare».

 

 

 

Oggi voi sopravvissuti siete tutti qui (tranne Javier Methol) perché avete deciso di cibarvi dei corpi dei vostri amici morti. Una decisione che ha suscitato molte polemiche nei giorni successivi al vostro ritorno, ma che la Chiesa non vi ha mai rimproverato (anche papa Paolo VI vi ha scritto) ed è stata accettata anche dalle famiglie di chi non ce l'ha fatta, perché sapevano che se non ci fossero stati morti di cui cibarsi non ci sarebbe poi stato nessun sopravvissuto. Come ha detto Canessa, «non siamo stati cannibali, volevamo solo vivere».
«È un argomento che ha destato interesse più che altro fra chi non consceva tutta la storia. Fu la stampa scandalistica a montare il caso, ma non la gente che ci conosceva. Sappiamo che chiunque in quella situazione avrebbe fatto lo stesso. Il problema è che è molto facile giudicare stando comodi a casa e non abbandonati a 4000 metri di altezza, senza vestiti, senza cibo, senza acqua e con 30 gradi sotto zero. Vi posso assicurare che tutto cambia».

Possiamo chiederle cosa avete provato a cibarvi della carne umana? Qual era il suo sapore?

«Non senti assolutamente niente. Arrivati a quel punto, era più difficile procurarsi l'acqua sciogliendo la neve e combattere il freddo, che lassù morde e fa molto male».

Lei si è svegliato dal coma dopo lo schianto e ha trovato sua madre morta, sua sorella Susana le è spirata fra le braccia pochi giorni dopo. Ha chiesto ai compagni di lasciarle per ultime, nel caso avessero dovuto cibarsi di loro, e hanno accettato. Eppure, tutti voi vi siete dichiarati disponibili a farvi mangiare dagli altri per sopravvivere.

«È stato il miglior affare mai fatto. Siamo stati i primi donatori consapevoli del nostro corpo. Grazie a quel patto in 16 abbiamo lasciato la catena montuosa e oggi le nostre famiglie sono più di 140: che bellezza, che canto alla vita!».

Quale è stata, oltre al cibo, la cosa che vi ha più aiutato? Avete costruito occhiali dai parasole dei piloti, vestiti dai rivestimenti dei sedili, avete dormito dentro la fusoliera ammassati l'uno sull'altro per scaldarvi, e molti di voi avevano fratture e traumi gravi...

«Tutti gli esperti di sopravvivenza dicono che abbiamo fatto le cose giusta per sopravvivere... senza niente. E la prova è che siamo vivi».

Come è stata possibile la spedizione con Roberto? Oltre 40 km a piedi nella neve delle Ande senza attrezzatura da montagna, vestiti a strati, con scarpe da ginnastica. Lei ha detto che «ogni passo era più faticoso del precedente, mi pesavano anche i capelli».

«Se avessimo saputo cosa avremmo dovuto affrontare, non l'avremmo fatto. L'ignoranza che avevamo sulla maestosità delle Ande ci ha permesso di iniziare la più incredibile traversata di montagna mai realizzata. Con molta paura e un'anima pulita, ci siamo immersi in un inferno ghiacciato e ne siamo usciti».

Avete mai pensato di non farcela?

«Sì. Fino all'ultimo minuto del giorno 72».

È vero che quando siete arrivati al fiume lei non aveva visto Catalan perché è miope?

«Non è così. Roberto l'ha visto per primo perché stava guardando in quella direzione. Io avevo gli occhiali, quindi l'ho visto perfettamente. La mia miopia è un "mito"».

Oggi chi è Parrado?

«Il Nando di sempre, con una famiglia divina». 

 

 

 

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