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Dnipro, che pena il collaborazionismo pacifista che tifa Putin

Iuri Maria Prado
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Quella dell'altro giorno a Dnipro, con quel missile che ha ammazzato decine di persone inermi, è l'ennesima strage di civili lungo il corso dell'operazione speciale pianificata dell'aggressore russo. L'ennesima: ma sappiamo tutti che non sarà l'ultima, giusto come tutti abbiamo sempre saputo che ogni ospedale raso al suolo, ogni centro commerciale incenerito, ogni asilo bombardato, avrebbero rappresentato altrettante tacche destinate a moltiplicarsi sul manico della falce russa che miete senza sosta la vita ucraina.

 

 

Le complicità e le cospirazioni pacifiste rivolte a dare il nome di pace alla vittoria degli stragisti devono fare i conti con la realtà di uno stillicidio che solo una sconfinata disonestà intellettuale e la sistematica contraffazione della verità possono attribuire alla responsabilità di chi aiuta - sempre meno di quel che sarebbe necessario, peraltro - la resistenza ucraina. Che è, come dimostra quest'ennesima, e temibilmente non ultima, strage di civili, resistenza opposta a una politica di annientamento che ormai addirittura deliberatamente, e rivendicando ogni tappa del percorso, tira a impiantare nel cuore dell'Europa il diritto del più forte di ridurre a sé un altro popolo e di massacrarlo senza pietà se esso non alza le braccia.

 

 

L'hanno definita «guerra per procura», e la definizione sarebbe pressoché esatta se non vedesse ribaltati i ruoli: perché è sottoscritto da un sostanziale mandante il diritto che si intesta l'aggressore, e cioè il diritto di sterminare i civili visto che gli ucraini non si sottomettono e visto che una parte del mondo libero fornisce loro aiuto. E quel mandante è il collaborazionismo pacifista che attribuisce appunto agli insubordinati il dovere morale della resa, e a chi fa il possibile per assisterli, la colpa della prosecuzione dell'orrore: il macello che dovrebbe finire non perché chi lo mette in atto è respinto e condannato, ma perché chi lo subisce vi si arrende. 

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