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Putin, Erdogan e Lula: brontosauri allo sbando

Maurizio Stefanini
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Tre leader di grandi Paesi che arrivarono al potere quasi in contemporanea attorno all’inizio del millennio sono ora di nuovo grandi protagonisti con l’inizio del 2023. Ma in uno scenario che vede ognuno di loro sull’orlo del precipizio. Il più anziano è Luiz Inácio Lula da Silva, classe 1945, ex-operaio metalmeccanico e sindacalista, fondatore del Partito dei Lavoratori, che dopo essersi candidato alla presidenza per tre volte ed essere arrivato secondo fu eletto la quarta e confermato alla quinta, trovandosi così alla testa del Brasile dal primo gennaio 2003 al primo gennaio 2011. Adesso, il primo gennaio si è reinsediato, e una settimana dopo a Brasilia c’è stata una replica du Capitol Hill 2021, con 1800 persone arrestate dopo avere occupato i palazzi del potere per chiedere un intervento dei militari.
Il secondo è Vladimir Vladimirovic Putin, classe 1952, ex-ufficiale del Kgb, poi direttore del nuovo Fsb, dal 1999 ininterrottamente primo ministro o presidente della Russia. Dopo essersi infilato nel vicolo cieco della guerra con l’Ucraina, dopo aver offerto una tregua farlocca di Natale, adesso ha dovuto ammettere che il 2022 è stato per la Russia un anno terribile, anche se ha truccato i conti per cercare di dimostrare che lo è stato meno di quanto avrebbe potuto essere.
Il più giovane è Recep Tayyip Erdogan, classe 1954, centravanti in una squadra di calcio prima di diventare tra 1994 e 1998 sindaco di Istanbul, e poi tra 2003 e 2014 primo ministro della Turchia e poi presidente. E lui è l’unico aspirante mediatore che riesce a farsi sentire sia da Zelensky, che comunque rifornisce di armi; sia Putin, che da lui dipende ad esempio per provare ad aggirare le sanzioni.

 

VITE PARALLELE

Tutti e tre hanno avuto un’infanzia povera, prima di arrivare al potere. Lula è stato in carcere durante il regime militare per la sua attività sindacale, e ci poi è tornato per 580 giorni tra 2018 e 2019, con accuse di corruzione. Erdogan fu incarcerato per quattro mesi dopo essere stato sindaco, per un discorso estremista. Putin dopo la caduta dell’Urss per un po’ fu costretto a fare il tassista.
Tutti e tre, però, al potere hanno avuto grandi riconoscimenti. L’ex-estremista di sinistra Lula è stato premiato dai capitalisti del Forum di Davos, l’uomo del Kgb Putin fu salutato dall’Occidente come un partner essenziale e responsabile del G8, l’integralista islamico Erdogan fu votato da minoranze come gli armeni e i curdi. Sia il Brasile che la Russia e la Turchia nel primo decennio del millennio ebbero un periodo economico di grande prosperità. La Russia grazie al boom delle materie prime; la Turchia grazie al boom della manifattura a basso prezzo; il Brasile grazie a entrambi. Ma poi l’economia ha iniziato a andare male, e ci sono stati in tutti e tre i Paesi proteste di piazza. Putin ha risposto con una sterzata autoritaria, cercando anche di rilanciare il suo prestigio con una serie di avventure militari culminate nell’attacco all’Ucraina.
Anche Erdogan ha sterzato in chiave autoritaria, pur se la Turchia resta sostanzialmente una democrazia. In Brasile la delfina di Lula Dilma Rousseff è stata invece travolta da un impeachment. Chiaramente, chi ha votato Lula spera in un ritorno alla bonanza della prima decade del secolo. Ma pandemia e guerra ucraina hanno fatto venir meno il tipo di globalizzazione in cui questi personaggi erano emersi, e Putin ha contribuito in prima persona a questo suicidio. Ovviamente, alla offerta di tregua nel momento in cui sono loro a vincere gli ucraini hanno risposto picche, e per dare una idea di come va l’economia russa tra guerra e sanzioni basta ricordare che l’indice della Borsa di Mosca ha perso nel 2022 il 43,12%.

 

 

REBUS ELEZIONI

Apparentemente, Erdogan in questa situazione trova invece modo di esaltarsi, e il Pil è cresciuto dell’11% nel 2021 e del 5 nel 2022. Ma molto è recupero dopo il Covid e molto effetto di una spesa pubblica che “droga” l’economia, ma produce anche una inflazione che a inizio anno è stata misurata al 64%: l’ottava al mondo. Il governo ha perfino abolito l’età pensionabile: basteranno trai 20 e i 25 anni di contributi. Il tutto per pompare il consenso in vista del voto per il rinnovo della Grande assemblea nazionale il prossimo 18 giugno, in cui contro Erdogan si è armata una coalizione di quattro partiti che prende tutto lo spettro politico, dai kemalisti a un settore islamista concorrente. Per ora, ai sondaggi il presidente e il suo partito stanno poco oltre il 40%. Quanto a Lula, ha appunto appena iniziato. Ma la sua coalizione ha dovuto mettere assieme ben 11 partiti dall’estrema sinistra alla destra per raggranellare una maggioranza, l’economia è divisa tra almeno quattro ministri diversi, tre importanti provvedimenti annunciati dal nuovo governo sono stati subiti ritirati senza spiegazioni. Il mercato azionario brasiliano era crollato del 3% e dollaro e euro si erano rafforzati sul real ai massimi degli ultimi 10 mesi, quando è arrivato il fallito golpe. Lula cerca ora di sfruttare il contraccolpo per rafforzarsi, ma è presumibile che la cosa si esaurirà nel breve periodo.

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