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Lenin, fine intellettuale? No, spietato dittatore

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Roberto Coaloa
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Cento anni fa, il 21 gennaio 1924, Vladimir Il'ič Lenin, primo presidente della Russia sovietica dopo la rivoluzione del 1917, tra le figure più influenti della storia perché considerato leader della rivoluzione d’ottobre, moriva a Gorki (oggi Gorki Leninskie), in una suntuosa dacia, dopo aver abbandonato il Cremlino, il 15 maggio 1923, sotto consiglio medico. Di quel periodo si è conservata l’ultima foto di Lenin in vita, scattata nel maggio 1923. Il rivoluzionario è seduto su una sedia a rotelle, accanto alla moglie e al medico. Il suo volto, quasi irriconoscibile è segnato dall’ictus che lo colpì due anni prima e provocò una parziale paralisi del lato destro del corpo.
Dopo il 21 gennaio 1924, Lenin è stato oggetto di un gigantesco culto della personalità all’interno dell’Unione Sovietica, dalla mummificazione della salma esposta tuttora nella Piazza Rossa alla riproduzione della sua figura in ogni campo dell’arte. Culto della personalità voluto dal suo successore Stalin, sebbene Lenin in vita lo rigettasse. Culto della personalità che si estese anche nei Paesi del Patto di Varsavia, unione crollata rovinosamente, insieme alle gigantesche statue di Lenin, dopo il 1989. Il crollo del Muro di Berlino, simbolo concreto della Cortina di Ferro, il 9 novembre 1989, segnò la sconfitta della Rivoluzione russa e del comunismo in Europa.

À LA PAGE

Il mito di Lenin, però, continua ad essere praticato nella Russia di Putin. Anche in Occidente, i luoghi nei quali il leader della rivoluzione ha vissuto, da Parigi a Londra, passando per Zurigo e Capri, sono una meta tuttora à la page. Eppure Lenin fu un vero “mostro” come leader della rivoluzione: per un suo preciso ordine fu sterminata l’intera famiglia imperiale russa e si costruirono i primi lager per annientare i nemici del comunismo. Tuttora la sua figura necessita di una nuova biografia sine ira et studio poiché l’immagine che resiste è duplice: da una parte il sanguinoso Genghis-Khan, sbucato dal fondo di un’Asia arcaica, dall’altra l’intellettuale, un bibliotecario, quasi, capitato nel bel mezzo di una sommossa, ma in fondo un piccolo borghese.

Lo storico, finalmente, dovrebbe chiarire alcuni aspetti chiave, quasi leggendari, della vita di Lenin, a partire del ritorno di Lenin in Russia dopo l’esilio e notare, poi, che il vero leader della rivoluzione fu in realtà Lev Trockij. Nel 1917, infine, le mosse di Kerenskij e dei riformisti, che pensavano di porre le basi per una repubblica liberale, aprirono invece la strada della sanguinosissima dittatura di Lenin, realizzando così l’inascoltata profezia di Rosa Luxemburg, secondo cui la vittoria del proletariato bolscevico si sarebbe trasformata nell’atroce regime del partito leninista.

Nel 1917, per entrare in Russia dall’esilio di Zurigo, Lenin aveva tre scelte: in aereo (troppo pericoloso nel 1917 per la distanza), fingendosi svedese e sordomuto o travestito da bibliotecario. L’idea più strampalata era quella di travestirsi da svedese sordomuto, attraversare la Germania in treno arrivando in Danimarca, da lì passare in Finlandia e poi recarsi a Pietrogrado. Obiezione fatta dalla moglie, che così lo dissuase: Lenin si sarebbe di certo fatto scoprire mettendosi a borbottare qualcosa nel sonno a proposito dei menscevichi.

Il viaggio, infine, si fece con il leggendario vagone piombato, pagato, però, dal Kaiser Guglielmo II, che con quella inaudita collaborazione con il rivoluzionario russo riuscì a fermare la guerra sul fronte orientale, facendo scoppiare la Rivoluzione d’ottobre e stipulando, specialmente secondo i suoi interessi, la pace con il trattato di Brest-Litovsk: la resa e l’uscita della Russia dalla Prima guerra mondiale. Per questo motivo Winston Churchill notò: «I tedeschi volsero contro la Russia la più terribile di tutte le armi. Trasportarono Lenin in un vagone piombato come un bacillo della peste, dalla Svizzera alla Russia».

 

 

 

«L’INUTILE STRAGE»

Dietro questa pungente ironia si cela un episodio che ci è ora possibile ricostruire con una certa abbondanza di particolari grazie ai documenti della Wilhelmstrasse e ad altre fonti e che è uno dei capitoli più rivelatori della Rivoluzione russa. I tedeschi non si aspettavano che la rivolta esplodesse così presto. Durante i mesi di gennaio e febbraio furono informati del fatto che l’atmosfera a Pietrogrado stesse diventando sempre più tesa, ma sembra, anche per una semplice protesta del nuovo Imperatore d’Austria, Carlo, che il Ministero degli Esteri a Berlino fosse stato assai più allettato dalla possibilità di venire a patti con lo Zar che dai piani di eliminarlo mediante una rivoluzione.

Carlo, infatti, ammonì il Kaiser tedesco scrivendogli che se la rivoluzione bolscevica in Russia avesse avuto successo, tutte le monarchie sarebbero state in pericolo. Era stata effettivamente preparata la minuta di una lettera diretta a Nicola con le proposte di pace tedesche e i negoziati erano già stati affidati al principe Max di Baden, quando Nicola II abdicò. Senza dubbio, ai primi di marzo, pochi capi tedeschi pensavano di riportare Lenin e i suoi amici in Russia e di metterli al posto dello Zar. Durante la guerra e dopo la Rivoluzione, ancora l’Imperatore Carlo scrisse la Re di Spagna, Alfonso XIII di Borbone, affinché avvertisse le potenze dell’Intesa che il bolscevismo avrebbe ingoiato le nazioni dello scomparso impero, consigliando l’invio di truppe nell’area danubiana per spegnere gli estremismi, instaurare una confederazione ed evitare le sommosse con il tempestivo invio di viveri.

A Zurigo, all’inizio del 1917, mentre pacifisti e rivoluzionari trovavano rifugio dall’«inutile strage» nella Svizzera neutrale, Stefan Zweig incontrò diverse volte Lenin al Café Odeon, dove si radunavano i bolscevichi (pare che i menscevichi preferissero l’Adler). Zweig non restò impressionato dal leader russo e anni dopo si chiese: come mai «questo piccolo uomo caparbio, Lenin, diventò tanto importante?».

Un altro pacifista che non si fece impressionare da Lenin, anche dopo la Rivoluzione, fu il filosofo Bertrand RusNella foto grande un murales dedicato a Vladimir Lenin (22 aprile 1870 - 21 gennaio 1924); a sinistra il rivoluzionario è con la moglie Nadezhda Krupskaya (definita dalla cognata, Anna, legata al fratello da un affetto un po’ tirannico ed esclusivo, l’”aringa” per il suo aspetto fisico decisamente poco attraente) con due bambini che non sono mai stati identificati (la coppia infatti non aveva figli). (Getty) sell, che nella sua Autobiografia ricorda: «Lenin, con il quale ebbi circa un’ora di colloquio, fu per me una delusione. Non credo che avrei indovinato che era un grand’uomo. Durante la nostra conversazione fui soprattutto conscio dei suoi limiti intellettuali e della sua ortodossia marxista piuttosto limitata; notai pure, molto chiaramente, una vena di crudeltà dispettosa in lui».

 

 

 

LE DONNE

Non è un caso che Lenin, come appare oggi a certi biografi, che lo osservano attentamente negli spostamenti tra Capri, la Riviera, Londra e la Svizzera, abbia i tratti di un Lenin piccolo borghese, poco eroico, ma innamorato della sua vita e delle sue donne. Il segreto di Lenin, infatti, fu il sostegno delle donne. Donne della rivoluzione, ovviamente. Lenin fu anche un “mammone”: la madre Marija Aleksandrovna Blank lo sostenne economicamente fino a 46 anni, cioè fino a un anno prima della rivoluzione, quando lei morì all’età di 81 anni. Il biografo di Lenin, Robert Service, a questo proposito racconta: «Con la morte della madre, avvenuta il 14 luglio 1916, non arrivava più la pensione che lei divideva con i figli nei momenti difficili».

Le donne della sua vita furono due rivoluzionarie e in questo Lenin fu davvero un buon rivoluzionario per i suoi tempi, inaugurando lo stile novecentesco del ménage à trois. La moglie, ovviamente brutta, sembrava un’aringa. Nadežda Krupskaja fu così definita dalla cognata, Anna, legata al fratello da un affetto un po’ tirannico ed esclusivo. E poi l’amante: Elisabeth Inès Armand. Personalmente trovo questo Lenin assai simpatico: uno che si innamora a prima vista di Inès, giovane rivoluzionaria, a Parigi, in un angolo dell’Avenue d’Orléans, discettando di rivoluzione. Un vecchio russo ancora “dionisiaco”, insomma, che non riusciva a staccare i suoi occhi mongolici da quella francesina. Quando morirà Inès, Lenin pianse, magari accarezzando il suo inseparabile gatto. Simpatico, no? Eppure, per me, Lenin rimane l’assassino dei bambini Romanov e, come ben diceva Rosa Luxemburg, Lenin è il primo dittatore di un regime sanguinoso fatto a sua immagine.

 

 

 

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