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Il Portogallo che ha virato a destra deve respingere le mire della Cina

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Gianluigi Paragone
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Lisbona è quell’incrocio dove San Francisco incontra Napoli e parla una lingua che ha conquistato il mondo. Il Portogallo aprì il compasso della globalizzazione in tempo moderno e te lo fa pesare. L’Unione le sta stretta, prende i soldi di Bruxelles perché è come se le spettassero per un vecchio credito con la Storia. Lisbona e Porto, Algarve e Azzorre, Sintra e Coimbra: punti cardinali di uno Stato che si è rimesso in piedi dopo lo Splendore e la Miseria, spinto dalla madonna di Fatima e dall’onnipresente e onnipotente Cristiano Ronaldo, patrono di Madeira e Protettore lusitano.

CR7 è ovunque, poeta del pallone, lamentoso come il fado, più benefattore di Barroso che da presidente della Commissione di soldi ne portò tanti; non c’è turista che non sbirci nei negozi di Força Portugal, merchandising del futebol rossoverde che in Europa ha visto in epoche diverse campioni fantasiosi da Eusebio a Cristiano Ronaldo, passando per Figo e Rui Costa: l’eco del 2016, quando vinsero gli Europei è comunque più forte delle Europee 2024.

Mi sono infilato nella truppa di italiani che guarda al Portogallo con amicizia, quasi sentendosi a casa, una dalle profonde radici cristiane, mariane. Sono stato qui qualche giorno, un tempo sufficiente per ascoltare e vedere: le tv non si scaldano per le elezioni e nemmeno i manifesti danno l’impressione di una grande emozione.

Il Portogallo ha da poco votato per il cambiamento radicale: la forza di destra Chega di André Ventura ha triplicato i voti spostando il baricentro del parlamento e del governo. Questo è il prezzo che la sinistra ha pagato per essersi agganciata ai programmi e alle ricette del fondo monetario, per la promozione delle agenzie di rating. Evidentemente le pagelle finanziarie non coincidono - bene memorizzarlo una volta per tutte - con il benessere del popolo. È stato un attimo che il Portogallo si è svegliato a destra.

Nei locali e nei ristoranti c’è simpatia reciproca per l’Italia e gli italiani. Non c’è più il grande vantaggio fiscale che attirò la nostra terza età, ma molti continuano la spola con la regione dell’Algarve: Portimao, Albufeira e Faro. Il costo della vita è aumentato, ti dicono; ma la magia lusitana ti entra nella pelle e «quindi ormai ci sentiamo a casa». Da Lisbona a Porto, le vetrine del Made in Italy spiccano nelle vie del lusso; e pure il mangiare si specchia - come non potrebbe - nelle insegne dei ristoranti che al verde e al rosso portoghese infilano il bianco italiano.

Grattiamo quelli che potrebbero sembrare facili luoghi comuni e cerchiamo di capire cosa sta accadendo nel profondo: la Cina è qui, eccome se è qui. Si sta infilando sempre di più laddove l’Europa guarda l’Oceano, laddove si partiva per conquistare le terre nuove.
L’economia del Dragone si vede; la finanza si sente: il capitale si è innervato nelle infrastrutture che contano. Nelle sperdute Azzorre le bandierine dei porti parlano cinese, i container commerciali sono sentinelle della globalizzazione commerciale ma anche trincea militare, occhi che controllano gli spazi blu dell’Oceano.

Nell'ultimo decennio la Cina è diventata il quarto investitore diretto estero del Paese. Secondo la Banca del Portogallo le aziende cinesi, sia statali che private, detengono una posizione globale valutata ben oltre 12 miliardi di euro nell'economia portoghese. Gli investimenti hanno prima riguardato i settori dell'energia, delle banche, delle assicurazioni e della sanità. Ora le linee di credito mirano alla costruzione di porti, linee ferroviarie o autostrade. Troppo per un Paese avamposto del blocco Nato.

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