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Jimmy Carter, tanti auguri ex presidente: il peggiore da cent'anni

Giovanni Sallusti
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Il bilancio della presidenza di James Earl Carter Jr., detto Jimmy, sta per sempre in una fotografia. È la mappa elettorale degli Stati Uniti datata 4 novembre 1980. Il presidente uscente, Jimmy, vince solo nella sua Georgia, in West Virginia, in Minnesota e nel Distretto di Columbia. Tutto il resto è una marea rossa, la marea repubblicana di Ronald Reagan che spalanca un nuovo tornante della Storia americana, occidentale, planetaria. Jimmy Carter compie cent’anni in questi giorni, e qualunque celebrazione filologicamente onesta e storicamente fondata non può non partire da quell’immagine, l’istantanea di una disfatta. Se il grande esperimento della democrazia americana consiste nel ritratto che ne fece Abramo Lincoln, ovvero quello di «un governo del popolo, dal popolo, per il popolo», la stroncatura irreversibile della stagione carteriana rimane quella che recapitò l’elettore nelle urne. Fu, anzitutto, la bocciatura di un idealismo verboso e scolastico che lo stesso Partito Democratico abbandonò precipitosamente (tutta l’era clintoniana fu all’insegna del pragmatismo centrista), salvo riesumarlo poi con l’avvento di Barack Obama, l’unico all’altezza del fallimento di Carter. Sì, perché quello di Carter è stato un grande, fin spettacolare fallimento. (...)

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