L’ayatollah Khamenei sa che nessun bunker potrà difenderlo da Israele. Al suo amico libanese Nasrallah non sono bastati venti metri di cemento armato metri sotto un condominio di Beirut.
Del successore di quest’ultimo, Hashem Safieddine, è rimasto ben poco dopo che il segretissimo quartier generale di Hezbollah ad al-Marija, è stato preso di mira da 73 tonnellate di esplosivo sganciate dagli aerei israeliani. E anche se i missili e i bombardamenti non bastassero chissà quali diavolerie, tipo gli esplosivi nei cercapersone, gli israeliani si saranno già inventati. Consapevole di vivere appeso a un filo la cui resistenza non dipende da lui o dalle guardie del Vali-Amr, il sottogruppo del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, addetto alla sua sicurezza, la Guida Suprema ha notevolmente rimpicciolito il suo mondo. Da anni nemmeno più si reca a Mashhad, la sua città natale dove era solito trascorrere i periodi di vacanza, e di cui tuttavia gli agenti israeliani sapevano tutto per filo e per segno.
Compreso il fatto che il più delle volte, fedele al suo status di «leader degli oppressi e dei poveri del mondo» che gli è dovuto in quanto successore dell’ayatollah Khomeini, utilizzasse voli di linea tra passeggeri ordinari nella consapevolezza che Israele avrebbe avuto più remore ad abbattere un aereo zeppo di civili che uno di Stato con guardie del corpo, personalità politiche e militari.
Ma anche tutto questo è finito. Considerata la morte, non certo per cause naturali, di molti dei suoi più stretti collaboratori, da Soleimani in poi, fino a Bagheri e tutti gli altri, passando ovviamente per Raisi, considerata l’età e la disperata situazione contingente ora Alì Khamenei preferisce rimanere rinchiuso nel suo nero bisht, lontano dalla luce del sole, in spesse mura di cemento armato che con ogni probabilità diventeranno la sua tomba.
Lontano da tutto e da tutti in un isolamento emblematico, rappresentazione simbolica dell’implosione del suo potere e forse anche del regime stesso. Quasi consapevole del destino del suo Paese, o forse anche per quella superbia che caratterizza i dittatori meno lungimiranti, l’ayatollah a 86 anni suonati nemmeno si è scelto un successore. Da qualche tempo si parla di suo figlio Mojtaba, il più odiato tra gli iraniani («morirai, non riuscirai a diventare il leader!» cantavano in proposito i manifestanti durante gli scontri di tre anni fa), ma anche di lui si sono perse le tracce. Si nasconde nello stesso bunker del padre? E dire che una possibilità irripetibile di uscire dal suo buco alla famiglia Khamenei è stata offerta solo qualche giorno fa.
Bastava essere più accondiscendenti, dire sì al presidente americano che ha messo sul tavolo un semplice accordo sul nucleare. Alì l’ha rifiutato sdegnoso giudicandolo «un bluff», il suo odio atavico per l’America ha vinto ancora ma stavolta è un moto d’orgoglio che lo seppellirà. Già nel 1981, quando era presidente, prometteva di sradicare «la deviazione, il liberalismo e i movimenti di sinistra influenzati dagli americani». Nel 2015 criticò il presidente Rouhani per aver negoziato l’accordo sul nucleare con Obama e tre anni più tardi, quando Trump lo abbandonò, disse «ve lo avevo detto, degli americani non bisogna mai fidarsi». Quando nel 2020 fu ucciso Soleimani, Khamenei giurò vendetta e più tardi dichiarò che era importante «porre fine alla presenza corruttrice dell'America nella regione».
Il suo odio per gli Stati Uniti è secondo solo a quello per lo Stato di Israele, da lui definito un «tumore canceroso» che deve essere rimosso dalla regione il prima possibile. Nel 2014 mise perfino in dubbio l’Olocausto, «la cui realtà» disse «è incerta e, se è accaduto, è incerto come sia accaduto». Alla Guida Suprema e a Soleimani si deve anche la strategia dell’utilizzo di proxy per combattere Israele, ovvero la guerra asimmetrica (o per procura). «Controlliamo cinque capitali arabe» disse una volta Soleimani riferendosi a Beirut, Damasco, Bagdad, San’a e Gaza. E sempre lui è stato il precursore dell’idea che una grande potenza come la Repubblica Islamica dell’Iran non potesse non dotarsi del nucleare.
L’ayatollah ha sempre pubblicamente sostenuto che se ne dovesse fare solo un rigoroso uso civile, emettendo anche una fatwa in proposito, ma ci sono prove che fin dall’inizio del secolo Teheran abbia cercato un arricchimento dell’uranio oltre al dovuto. D’altronde le chiavi del suo potere sono sempre state il sotterfugio, tanto che perfino la sua scalata al vertice è avvenuta attraverso un inganno. Dopo la morte di Khomeini nel giugno 1989, l’Assemblea degli esperti scelse lui come nuova Guida Suprema, nonostante non avesse ancora raggiunto il rango richiesto tra gli ecclesiastici sciiti, come stabilito dalla costituzione. In sostanza Khamenei non era un ayatollah. Per porre rimedio in un giorno si modificò la costituzione e il giorno dopo fu elevato dal rango di Hojjat al-Islam ad ayatollah.