Se l’America di Trump torna grande non può essere isolazionista

L'analisi dell'intellettuale Victor Davis Hanson vede tutto ciò che il tycoon sta facendo nei confronti del’Iran in linea con ciò che ha detto e fatto riguardo all’America First
di Giovanni Sallustivenerdì 20 giugno 2025
Se l’America di Trump torna grande non può essere isolazionista
3' di lettura

C’è un corollario della guerra mediorientale che in realtà non è tale, è il fattore che potrebbe chiudere la partita. Scomoda nientemeno che il significato ultimo del trumpismo, il quale manda al macero la sua caricatura allestita dal mainstream globalista, ma (involontariamente?) avvalorata anche dai segmenti ossessivamente autarchici del mondo Maga. In sintesi: un’America di nuovo Grande non può essere un’America isolazionista, pena un controsenso palese. Non esiste grandezza dell’America senza presidio della sua potenza globale e fin imperiale (è la dialettica tra “democrazia” e “impero” presente già nell’Atene di Pericle e raccontata da Tucidide). È esattamente l’errore che Trump rimprovera a Biden, fin dalla ritirata scomposta dall’Afghanistan, e che nei giorni scorsi ha spiegato a modo suo, via social, a un pezzo da novanta del Maga ultra-autarchico come il giornalista Tucker Carlson: «Qualcuno per favore spieghi al bizzarro Tucker Carlson che L’IRAN NON PUÒ AVERE UN’ARMA NUCLEARE!». Il maiuscolo definisce l’interesse nazionale, e di potenza, americano.

The Donald non è un neo-conservatore che sovraespone l’America nel mondo, con aggravio di vite americane e di esborso per i contribuenti. È però un leader assertivo e realista, che individua le priorità per gli Stati Uniti e la loro rete di alleanze (di cui Israele è protagonista indiscusso) e le tutela con tattica variabile, ma strategia indefettibile. Una postura che ha scandagliato sul Daily Signal Victor Davis Hanson, intellettuale di punta del mondo conservatore ed esperto di storia militare. Trump, anzitutto, non è né un «intervista» ideologico né un «isolazionista» ideologico. Piuttosto, «era ed è chiaramente un populista-nazionalista». In senso, però, prettamente americano (laddove l’espressione su suolo europeo conserva invece anch’essa una rigidità ideologica). Ovvero, uno che mantiene come bussola la domanda: «Cosa, in un’analisi costi-benefici, è nel migliore interesse degli Stati Uniti in patria e all’estero?». È svolgendo questa analisi, secondo Hanson, che nel primo mandato ha bombardato pesantemente l’Isis sostenendo l’offensiva curda, ucciso il generale-architetto del Terrore Soleimani, ucciso il Califfo al-Baghdadi, perfino applicato a Putin una deterrenza efficace, a differenza di Obama prima e Biden poi.

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Ed è sempre in base a un’analisi costi-benefici, scrive lo storico, che «se Israele non riuscisse a portare a termine» il compito di azzerare il rischio nucleare iraniano, entrerebbe direttamente in gioco, in particolare attaccando il sito sotterraneo di Fordow, che può essere raggiunto solo dalle “super-bombe” americane.
Conclusione di Hanson: «Tutto ciò che Trump sta facendo nei confronti del’Iran sembra in linea con ciò che ha detto e fatto riguardo all’America First». La forza come minaccia pressoria ed extrema ratio per raggiungere obiettivi strategici rispetto all’interesse americano. Per questo ribadisce che può bombardare come no, e che i giornali non conoscono le sue intenzioni: non per volubilità capricciosa (tesi mainstream), ma per tenersi aperti tutti gli scenari. È un modo, né con gli stivali sul terreno neocon né con la retorica dirittista democratica, di stare nel mondo, non di fuggire da esso. L’Impero si ristruttura, non si chiama fuori, anche perché sarebbe un’America ben poco Great. Una teocrazia-canaglia che teorizza esplicitamente la cancellazione dello Stato degli ebrei e l’esportazione dell’apocalisse islamica non può avere la bomba atomica, da un punto di vista realista, americano, occidentale. Gli scenari sono aperti, al centro c’è ancora l’America, l’isolazionismo (per fortuna) era una balla.

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