Da mesi, insieme ai razzi e alle diplomazie, c’è un’altra arma che attraversa il conflitto israelo-palestinese: la narrazione. In particolare quella della “carestia deliberata” a opera di Israele, accusa che rimbalza sui social, nei cortei e nei talk show come verità assoluta. Fame come crimine di guerra, fame come strumento genocidario, fame come campo di battaglia morale. Ma quando il dolore diventa propaganda, la realtà viene piegata, semplificata, strumentalizzata. Per capire Gaza oggi non bastano slogan: servono azioni. Non appena Israele ha annunciato la chiusura temporanea del valico di Rafah e la riduzione del transito degli aiuti umanitari finché Hamas non consegnerà i corpi degli ostaggi israeliani deceduti, è esplosa la consueta valanga di accuse contro il governo israeliano. Sì, anche organizzazioni umanitarie come la stessa Croce Rossa hanno confermato le difficoltà logistiche di recupero delle spoglie in molte aree distrutte. Ma, nel frattempo, Israele vuole vederci chiaro.
Gerusalemme ha sempre respinto le accuse di aver scientemente provocato la carestia a Gaza, sostenendo che gli aiuti siano arrivati regolarmente e che sia stata Hamas a confiscarli, gestirli o usarli a fini politici. Ma aldilà delle versioni contrapposte, nelle ultime ore, dopo la firma dell’accordo di cessate il fuoco e l’avvio del processo di pace, migliaia di immagini sono circolate sul web e sui social, alimentando un acceso dibattito sulla reale situazione umanitaria nella Striscia. Accanto a scene drammatiche di disperazione e distribuzione caotica di aiuti, hanno iniziato a comparire video e fotografie che mostrano una realtà meno assoluta: mercati affollati, venditori di frutta per strada, bambini che mangiano dolci in strada, scene di folle festose che celebrano la fine delle ostilità senza particolari segni di carestia. Alcuni giornalisti tacciati di essere «agenti sionisti» hanno mostrato file di camion carichi di aiuti alimentari che entrano nei valichi, e in generale l’ipotesi della fame come strumento di guerra non sta più bucando lo schermo social.

Queste immagini, certo, non negano affatto la sofferenza vissuta dalla popolazione, ma mettono in discussione l’idea che Gaza stia vivendo un collasso alimentare sistemico su tutta la popolazione. Parlare di fame come fenomeno generalizzato rischia di ignorare alcuni elementi fondamentali. La crisi alimentare è grave, ma non uniforme. Le zone più colpite sono quelle del nord e le aree più devastate dai bombardamenti, dove l’accesso al cibo è difficile e costoso. Al sud e in alcune aree centrali, invece, i mercati locali hanno ripreso a funzionare, anche se i prezzi restano molto alti e la povertà diffusa limita l’accesso reale al cibo. Per questo, ci sono gli aiuti. I rifornimenti arrivano, seppur in modo disomogeneo. Nonostante le restrizioni, centinaia di camion di viveri entrano comunque nella Striscia ogni settimana e tonnellate di viveri vengono paracadutate da missioni militari umanitarie come quelle condotte dall'Italia.

Tuttavia, la distribuzione resta caotica, con lunghe attese, episodi di furti, resse etc. La logistica interna è compromessa, non solo dai controlli israeliani, ma anche dall’assenza di istituzioni funzionanti e dall’ingerenza di gruppi armati; 3. Il termine “carestia” fa il paio con “genocidio” ed è usato anche politicamente. Gruppi pro-Pal lo usano per denunciare Israele sul piano internazionale. La realtà sta probabilmente nell'equilibrio: c’è una crisi alimentare seria, ma non si può parlare di carestia totale. Non è certo un segreto ormai che alcune narrazioni estreme disponibili online semplifichino apposta una situazione complessa, per far leva sulle emozioni.

Quindi sì, Gaza è un luogo ferito, sotto enorme pressione economica e umanitaria, ma non sistemicamente collassato. Ci sono fame, povertà, precarietà, ma anche scene di vita quotidiana fatta allo stesso tempo di difficoltà e dignità. Le immagini che circolano online e le stesse silhouette dei protagonisti dei video mostrano entrambe le realtà. La crisi comunque sarebbe risolvibile, se non venisse piegata alle acrobazie retoriche di Hamas. La nuova chiusura del valico di Rafah è un chiaro messaggio: Israele accetta la tregua ma non le prese in giro, e terrà altissima la guardia e bassissimo il livello di tolleranza. La verità, come sempre, è complessa, e merita di essere raccontata senza dogmi e senza propaganda.