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Ursula Von der Leyen, perché dobbiamo mandarla al diavolo

Alessandro Giuli
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Quella appena conclusa è stata la campagna elettorale maggiormente condizionata da influenze esterne che si sia vista dai tempi dell'immediato secondo dopoguerra novecentesco. Per comprenderlo non serviva l'ultimo, improvvido e perciò subito corretto, monito di Ursula von der Leyen circa i poteri di cui la sua Eurocommissione dispone per ortopedizzare l'Italia nel caso in cui l'esito del voto di oggi diriga verso il "modello ungherese" di Viktor Orbán. Non fu così nemmeno alla vigilia delle consultazioni del 1994, con Silvio Berlusconi sceso in campo per scardinare la volontà di conquista post sovietica dei Progressisti sorretta dagli esiti di Mani pulite. Allora la cornice internazionale di riferimento era differente, il mondo libero non era in guerra con il dispotismo asiatico (hard power vs Mosca; soft power vs Pechino) e non veniva da annidi pandemia globale e instabilità sistemica nei mercati finanziari.

 

 


RUOLO STRATEGICO
ma soprattutto l'Italia non occupava il ruolo strategico riguadagnato oggi (malgré soi?) nel grande gioco geopolitico ed energetico del Mediterraneo allargato, laddove la nuova cortina di ferro insiste sull'arco di crisi che dall'Ucraina giunge fino al Nord Africa attraversato da imponenti e irrinunciabili gasdotti. Il recente viaggio di Mario Draghi a New York in occasione dell'Assemblea generale dell'Onu, e più ancora il suo corredo di appuntamenti di altissimo rango culminati nell'incontro con Henry Kissinger, vale come testimonianza indiretta di un'attenzione pertinace che l'Occidente euro-atlantico proietta sull'Italia come "osservata speciale". La recente diffusione di un generico, protocollare dossier riconducibile al Dipartimento di Stato e dedicato alle nomenclature europee più sensibili ai corteggiamenti della Russia ha suscitato più risonanze provinciali che analisi razionali. Un'analoga superficialità ha tratteggiato le reazioni ai disordinati avvertimenti di Dmitry Medvedev e ai post provocatori dell'Ambasciata russa a Roma, l'ultimo dei quali ritraeva in serie diacronica i nostri ex presidenti del Consiglio accanto a Vladimir Putin nel corso di colloqui istituzionali.


Altrettanto clamore hanno suscitato le sortite dell'establishment di Bruxelles al cospetto dell'eventualità che il centrodestra a trazione conservatrice giunga a Palazzo Chigi e venga personificato dalla leader post fascista Giorgia Meloni. Dal commissario Frans Timmermans ai suoi terminali nella stampa estera mitteleuropea fino al cancelliere socialista tedesco Olaf Scholz con il suo endorsement nei confronti di Enrico Letta, passando per la serie d'articoli vergati dai quotidiani progressisti anglo-francesi, abbiamo assistito (e assisteremo ancora) a un inedito presenzialismo preventivo al quale si è singolarmente sottratto l'Eliseo di Emmanuel Macron, forse in omaggio al cosiddetto Trattato del Quirinale da poco siglato con Draghi e Sergio Mattarella.


Nel frattempo iverio presunti portavoce dei principali fondi d'investimento mondiali sono rimasti alla finestra, lasciando che fosse il quotidiano della City, il Financial Times, a farsi ispirare dagli accademici progressisti italiani nelle sue analisi del sangue alle destre in cerca di globuli neri e deficit di autorevolezza. Un contegno simile anche per il Vaticano, in linea con le disposizioni di non ingerenza pubblica stabilite da Bergoglio a beneficio semmai dell'iniziativa più carsica, indipendente e territorializzata della Conferenza episcopale e dell'ordine gesuitico dal profilo progressista ma innervato in entrambi i blocchi elettorali. In sintesi: nel campo di battaglia guelfi e ghibellini si affrontano più sottotraccia che in campo aperto, mentre il Quirinale, garante e protettore della Concordia nel corpo civico, smentisce con puntigliosa sistematicità ogni retroscena che lo chiami in causa mantenendosi silente e pronto a intervenire da domani in poi con tutta la sua autorevolezza entro il perimetro del dettato costituzionale. In tale frastuono, se risulta chiaro il lavorìo destabilizzante della Russia almeno quanto evidenti sono - per chi sappia osservarli - i movimenti in ordine sparso delle cancellerie europee che contano (notevole la visita estiva di Macron nell'ex colonia d'Algeria per ristabilire una diplomazia degli affari laddove l'Italia conta di rappresentare un interlocutore privilegiato per il nuovo hub di approvvigionamento energetico continentale), la domanda di fondo resta apparentemente inevasa: che cosa si aspetta Washington da Roma?


TRADIZIONALE FEDELTÀ
Non soltanto la tradizionale fedeltà all'alleanza atlantica ma anche una posizione dialogante rispetto all'Europa franco-tedesca di Aquisgrana. A differenza di Donald Trump, protagonista di un disimpegno sovranista unilaterale e marcatamente anti europeo, l'Amministrazione democratica di Joe Biden sente la necessità di un'Europa alleata, coerente e coesa, che parli a una voce sola come pilastro orientale della Nato, non importa se progressista e conservatrice. In questo senso appare pronta a fiancheggiare una premiership italiana nuova, femminile e ben piantata dalla giusta parte, a patto che questa sia capace d'interpretare un ruolo di garanzia euromediterranea (di nuovo la Francia, riluttante sorella latina) che non confligga con Bruxelles e contribuisca semmai a contenere le tentazioni di Ostpolitik berlinesi. Ma soprattutto, per restare in Italia, ci si aspetta da Palazzo Chigi una continuità d'indirizzo stabile, anche quando si tratterà di fronteggiare un'erosione di consensi a beneficio delle fazioni più ambigue e divisive dentro e fuori la coalizione, senza nulla concedere agli antichi richiami della foresta antisistemica in cui la destra tolkieniana si è rinserrata per tanti anni. Meloni è avvertita, insomma. Gradita e avvertita.

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