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Tribunale Ue, la trappola di Parigi e Berlino su brevetti

Iuri Maria Prado
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Sia pur con colpevole ritardo, l’Italia ha cominciato a capire quanto sia importante essere protagonista anziché solo spettatrice (ma sarebbe meglio dire vittima) del nuovo sistema brevettuale europeo, un’architettura ormai pronta all’inaugurazione con l’imminente attivazione del Tribunale Unificato dei Brevetti. È ufficio giurisdizionale di grande importanza, che giudicherà nelle cause in materia di brevetti europei. Originariamente era previsto che fosse articolato a livello apicale in tre sedi giudicanti dislocate a Parigi, a Monaco di Baviera e a Londra, ma l’uscita del Regno Unito dalla Ue ha reso vacante la sede londinese. L’Italia aveva e ha i titoli per accogliere la sede a suo tempo assegnata a Londra: il governo Draghi aveva lavorato in tal senso, e il governo attuale non ha accantonato il dossier, avendo evidentemente compreso che l’alternativa sarebbe di lasciare l’impresa italiana esposta al rischio di essere processata all’estero, in lingua straniera e con costi che si calcolano superiori da cinque a trenta volte rispetto a quelli normalmente correnti qui da noi.

 


I POTERI
I provvedimenti che il Tribunale unificato può assumere nei confronti di chi sia accusato di violazione brevettuale sono molto incisivi: divieto di produrre e commercializzare i propri prodotti in tutti i Paesi, sequestro dei beni aziendali, blocco dei conti correnti e degli “averi” del presunto responsabile della violazione. Si immagini l’effetto di simili provvedimenti – già gravi e invasivi per conto proprio – se dovessero concentrarsi in un’ordinanza scritta in francese o in tedesco che arriva tra capo e collo di un’impresa di Brescia, di Reggio Emilia o di Lecce chiamata a tutelare lassù, in palese condizione di minorità difensiva, le ragioni della propria attività. È dunque un sistema molto pericoloso, al quale è bene partecipare solo se si contribuisce a gestirlo, perché in caso contrario visi soggiace e basta. Si pensi che proprio gli inglesi, ora fuori dai giochi, affidarono a un rapporto parlamentare questa segnalazione definitiva: d’accordo, dissero, il Regno Unito potrebbe anche starci, ma solo a una condizione e cioè, appunto, a patto di poter disporre di una delle sedi principali del Tribunale. E infatti la ottennero.

 

 


IL RICATTO
È inutile dire che ora, mentre l’Italia confida di veder confermata la prospettiva di ottenere quella sede, le controparti europee - Francia e Germania - si stanno muovendo per dividersi il grosso della torta, la quale è costituita dal pacchetto di competenze che era appunto assegnato alla sede londinese. È una specie di sostanziale ricatto: noi, Francia e Germania, vi concediamo la sede del Tribunale, ma voi italiani scordatevi di prendervi ciò che competeva a Londra. Il fatto è che la fetta londinese era grossa e succosa: agricoltura, pesca e caccia, alimentari, abbigliamento, calzature, prodotti medicali, arredamento, gioielleria, pelletteria e valigeria, tabacco, farmaceutica, sport e divertimenti, chimica, metallurgia e molto altro. Per capirsi: se c’è una controversia brevettuale in una di queste materie, la causa finisce alla sede del Tribunale cui è assegnato quel pacchetto. È chiaro quindi che ospitare una delle tre sedi del Tribunale è necessario, anzi fondamentale, ma non è per nulla sufficiente se si lascia che essa sia svuotata di competenze. Avere una bella e imponente cattedrale giudiziaria in un deserto di business effettivo assomiglierebbe alla condizione di quelle ambasciate ricche di stucchi e perfettamente cablate, e fuori di lì una povera landa coloniale. Bisogna che l’Italia non molli l’osso.

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