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Brescia, bengalese pesta la moglie? Per il pm "è la sua cultura"

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Giordano Tedoldi
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Scene quotidiane di relativismo culturale, come si dice con un’espressione che, riecheggiando un gergo filosofico, tradisce spesso cecità di fronte a soprusi, ingiustizie e un pilatesco lavarsene le mani. A Brescia una cittadina italiana di 27 anni, madre di due figlie, originaria del Bangladesh ma cresciuta nel nostro Paese dall’età di quattro anni, rischia di non vedere riconosciuto il diritto – che è universale, e non culturalmente mutevole – di essere considerata una persona. Nel 2019, dopo annidi maltrattamenti fisici e psicologici da parte dell’ex marito, un bengalese sposato nella nazione d’origine con un matrimonio combinato dopo la morte del padre (in un’intervista al Giornale di Brescia, la donna ha spiegato di essere stata in realtà venduta in sposa a un cugino per 5mila euro, e di essere poi stata obbligata a interrompere gli studi superiori), tenuta spesso segregata dall’uomo sotto minaccia di essere riportata per sempre in Bangladesh, la giovane ha infine trovato il coraggio di denunciarlo. L’ex marito, che vive nel nostro Paese da diversi anni, viene così accusato di violenze e maltrattamenti.

RELATIVISMO GIURIDICO
Tuttavia, sulla strada che porterebbe al ristabilimento della giustizia, la sposa venduta e maltrattata trova un ostacolo imprevisto e tanto più insidioso perché figlio di un certo spirito del tempo, quello che favorisce il relativismo culturale appunto, una sorta di comprensione delle ragioni dell’altro che non di rado, però, si spinge fino a giustificarne i comportamenti oppressivi e violenti. Già al tempo della denuncia, infatti, la procura aveva chiesto l’archiviazione del procedimento, ottenendo però un rifiuto da parte del gip, che dispose l’imputazione coatta per l’uomo nato e cresciuto in Bangladesh commentando: «Sussistono senz’altro elementi idonei a sostenere efficacemente l’accusa in giudizio nei confronti dell’ex marito». Elementi che, però, nuovamente, il pm non ha ritenuto di far valere.

 


Perché è di ieri la notizia che l’accusa ha presentato richiesta di assoluzione per l’uomo con queste motivazioni: «I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine». E, ancora, il pubblico ministero sviluppa il suo ragionamento così: «Le condotte dell’uomo sono maturate in un contesto culturale che sebbene inizialmente accettato dalla parte offesa si è rivelato per costei intollerabile proprio perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono e che l’ha condotta ad interrompere il matrimonio. Per conformare la sua esistenza a canoni marcatamente occidentali, rifiutando il modo di vivere imposto dalle tradizioni del popolo bengalese e delle quali invece, l’imputato si è fatto fieramente latore».

 


Dunque, mentre la donna continua a denunciare di essere stata trattata, per anni, «come una schiava», la sua denuncia rischia di non portare a nulla, perché quei maltrattamenti, quelle privazioni della libertà, quel trattamento indegno di una persona, sarebbero stati un fatto culturale, non una deliberata crudeltà consapevolmente agita dall’ex marito. Un fatto culturale: davvero sconcertante come la parola “cultura” e i suoi derivati, che normalmente associamo a cose elevate, possa riferirsi alle violenze subite e denunciate dalla giovane cittadina italiana originaria del Bangladesh. Siamo in presenza di un cortocircuito logico ed etico per il quale, come dicevamo, la comprensione dell’altro diventa accettazione, indifferenza etica, e dunque impunità. Per assurdo, seguendo questa impostazione, se uno straniero aduso al cannibalismo venisse sorpreso in Italia a degustare una parte della sua ex moglie (fosse pure lei, “in origine”, consenziente), l’ipotetico antropofago, qualora denunciato dal suo pasto, verrebbe assolto perché la sua fame di carne umana è il «frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza».

PIANO PENALE
Lasciando da parte l’ovvia considerazione che, innanzitutto, deve essere la legge e il quadro di valori del Paese in cui ci si stabilisce a fare testo, e non le usanze più o meno primitive della nazione d’origine, come non si può non vedere che il piano dell’analisi sociologica, antropologica e culturale non può interferire con il piano penale e con l’esigenza di giustizia che esso riflette? Ammesso che in Bangladesh i costumi ammettano una selvaggia sottomissione della donna, non c’è una sola ragione al mondo perché il nostro Paese debba avallare o addirittura recepire tale ripugnante regressione rispetto ai propri valori e al proprio avanzamento sociale.

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