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Altro che sognante: sul Nord Bobo è un barbaro dormiente

Oneto: Formigoni ha rilanciato la proposta della Macroregione. Da Zaia a Burlando, ne parlano tutti tranne il segretario della Lega: perché?

Giulio Bucchi
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  di Gilberto Oneto Formigoni non ha gettato nello stagno un sassolino che si è tolto dalla scarpa. Pur facendolo con studiata leggerezza, ha scaraventato un macigno che rischia di generare uno tsunami, davanti al quale ci sono le più diverse reazioni. Zaia ha subito accolto l'idea della Macroregione con l'entusiasmo di chi l'aspettava e la predicava da un pezzo. Con lui il presidente del Friuli: viene da pensare che la bora mitteleuropea che soffia da quelle parti abbia reso gli amministratori più svegli e sensibili. I due governatori di sinistra sono come imbarazzati, non capiscono ancora cosa sia  successo e – soprattutto – cosa potrebbe succedere: uno non commenta e l'altro si aggrappa a dichiarazioni  confezionate con prudenza democristiana.  Chi non dice niente sono i vertici politici leghisti. Uno si aspetterebbe che la Lega balzasse fulminea su questo formidabile assist di  Formigoni e mettesse in campo tutte le sue forze su questa che dovrebbe essere la madre di tutte le battaglie autonomiste, e invece tutto tace. Sono passati quasi 19 anni da quel  12 dicembre 1993, quando il professor Miglio presentava il suo Decalogo il cui primo articolo diceva: «L'Unione italiana è la libera associazione della Repubblica Federale del Nord, della Repubblica Federale dell'Etruria e della Repubblica Federale del Sud».   Era l'atto di nascita del più serio e concreto progetto di riforma federalista dello Stato e, allo stesso tempo, lo svezzamento della Lega che passava da un acerbo e generico autonomismo a un più maturo disegno padanista.  Oggi la stessa architettura istituzionale viene proposta dal presidente della regione più grande e potente, da un esponente di una cultura politica che almeno negli ultimi decenni aveva un po' dimenticato le sue radici autonomiste, quelle di Sturzo, Zerbi e Marcora.  È curioso che lo stesso schema compaia con una certa assiduità anche sulla stampa anglosassone: a giustificarlo non sono le idealità un po' abborracciate del padanismo leghista ma concrete e drammatiche riflessioni sulla congiuntura economica. Identità ed economia  si sovrappongono a riprova della lucidità  delle premonizioni  di Miglio. La bandiera del suo neofederalismo viene sollevata da altri e la dirigenza leghista, invece di convogliare lì tutte le forze, di gridare il suo entusiasmo, di giocarsi tutto su questa insperata occasione che il destino le concede, cosa fa? Tace.  Qualche colonnello un urlo di gioia se l'è lasciato scappare, la base è in subbuglio e il vecchio Bossi, cui l'olfatto politico non è mai venuto meno, ha ricominciato a gridare all'indipendenza e alla secessione. Ma l'attuale segretario federale mostra una calma olimpica, un sereno distacco, una compostezza che lo ha reso apprezzabile ma che farebbe meglio a riservare per altre occasioni. Che stia preparando un botto ferragostano? Non è nel suo stile, ma è anche vero che il mestiere di segretario lo si apprende un poco alla volta e che è arrivato il momento di sparare fuochi d'artificio.  Tutti guardano verso le finestre del suo studio e aspettano un segnale: dopo mesi di umiliazioni e di gioco in difesa, il popolo leghista ha bisogno di sentire le trombe dell'orgoglio, di vedere sventolare i vessilli di battaglia. Nelle scorse settimane le scope agitate dai cosiddetti barbari sognanti hanno rinfocolato speranze e aspettative che erano sopite: oggi però comincia a serpeggiare il sospetto che sui sogni prevalga il presupposto biologico del sonno e che i barbari siano ronfanti.   Quella della Lega è per definizione e per scelta una rivoluzione pacifica ma non per questo si può pretendere di farla su Facebook o affrontando in un convegno – sia pur impegnativo come gli annunciati stati generali – qualche pesce lesso montiano.  

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