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Variante Delta, il professor Le Foche: "Quanto ci vorrà per tornare alla normalità", ecco cosa ci aspetta nei prossimi anni

Claudia Osmetti
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«Più di chiunque altro, sono stati i giovani ad aver interpretato in maniera corretta lo spirito di questa lotta al Coronavirus. Il vaccino è sinonimo di libertà, loro lo hanno capito e, adesso, possiamo pensare davvero di tornare alla normalità. O quantomeno di convivere con il Covid». Non ha dubbi, Francesco Le Foche, immunologo clinico dell'ospedale Umberto I di Roma. Si occupa di vaccinazioni dal 1985, e ora tira le somme dopo un anno e mezzo di pandemia, di contagi planetari, di restrizioni alla vita di tutti i giorni. Sono i ragazzi tra i 12 e i 19 anni (dicono le statistiche del ministero della Salute) che trainano la campagna vaccinale italiana: una su cinque delle persone in fila per ricevere la punturina, oggi, studia alle superiori. «Vedo tante persone, nelle cliniche in cui lavoro», racconta Le Foche, «ho vaccinato tanti ragazzi. Non lo stanno facendo perché vogliono andare in vacanza, ma perché hanno capito che i vaccini hanno già salvato milioni di vite».

Dottor Le Foche, cosa significa affermare che dovremmo "convivere con il coronavirus"?
«Vuol dire prendere atto che la società può e deve tornare a vivere concretamente, nel suo insieme. Ma per farlo, adesso, è necessario rispettare alcune condizioni sanitarie e sociali che ci permettano di condurre un'esistenza in sicurezza».

Per esempio?
«La prima cosa è la vaccinazione di massa e responsabile. Quando raggiungeremo una copertura intorno all'80-85% della popolazione potremmo iniziare a ragionare più serenamente sulla pandemia».

 

 

Quando accadrà?
«Credo che sia ragionevole ipotizzare nel mese di ottobre, basandoci sui dati della campagna vaccinale».

Insomma, in autunno. Nello stesso periodo, l'anno scorso, eravamo alle prese con la seconda ondata. Adesso quali sono le prospettive?
«Gradualmente dovremmo riconquistare l'opportunità di tornare a uno stato di normalità. Ma dobbiamo riservarci l'attenzione di sensibilizzare la fascia degli ultra 50enni, nella quale mancano all'appello del vaccino ancora circa due milioni di persone».

Ci potremmo togliere la mascherina?
«È prematuro dirlo. Non possiamo lanciare proclami o fare previsioni così specifiche. Possiamo sostenere, invece, che la strada che abbiamo intrapreso porta a quello. I comportamenti che oggi assumiamo devono facilitare le aperture».

Lei è ottimista? Crede che siamo a buon punto?
«Le persone si stanno comportando bene. Faccio un esempio. Per strada, nei supermercati, io vedo tante persone che indossano la mascherina quando ce n'è bisogno e se la tolgono, con gesti oramai automatici, quando si trovano da soli. Abbiamo interiorizzato questo modo di fare, è sicuramente un dato positivo».

Mica tutti, però. Ci sono anche i no-vax che s'indignano per la "dittatura sanitaria"...
«Sono una piccola parte. La maggioranza delle persone ha capito. Pensi agli stadi aperti».

 

 

Prego?
«La riapertura degli stadi è un bellissimo risultato dovuto quasi esclusivamente alle vaccinazioni. Sono diventati uno dei posti più sicuri e di riattivazione sociale. Con il procedere delle vaccinazioni potrà aumentare persino la percentuale dei tifosi».

È uno di quei casi di "convivenza col virus" di cui parlava?
«Sì. Si tratta di un risultato tangibile e anche di un motivo d'orgoglio. Il calcio resta una spinta fondamentale per la riattivazione della società sportiva, rimasta ferma per troppo tempo».

Senta, però c'è un problema. I vaccini sono sacrosanti, farli è anche una questione sociale e non solo individuale, siamo d'accordo. Ma per quanto tempo garantiscono l'immunità? Perché è qui che ci si gioca la partita.
«Non lo sappiamo con precisione. Quello che sappiamo con certezza è che la durata vale per nove, dieci mesi. Probabilmente anche un po' di più».

Ma dopo?
«Indicativamente per alcune persone, penso alle categorie più fragili, dovremmo fare la terza dose di vaccino entro l'anno, per risvegliare la memoria immunologica. La stessa cosa varrà, con ogni probabilità, per il personale sanitario. Ovviamente è una valutazione che dovrà essere fatta da chi di competenza, ma a breve, se vogliamo arrivare preparati».

E per tutti gli altri? Arriveremo al vaccino annuale, come quello dell'influenza?
«Non ne sono così convinto. Potrebbe bastare una terza dose per garantire l'immunità, diciamo impropriamente, definitiva. Ma non abbiamo dati a sufficienza per dirlo, al momento. Successivamente potrebbero fare da «molla» proprio i contatti interpersonali».

Cioè?
«Una volta vaccinata, magari anche da tanto tempo, una persona che s'imbatta in un contagiato, potrebbe riattivare il proprio sistema immunitario che riproduce gli anticorpi».

Quindi un nuovo contagio potrebbe agire, sostanzialmente, come il vaccino?
«Esatto. A quel punto non c'è più la malattia, perché non abbiamo problemi. Dobbiamo depotenziare il virus aumentando la nostra immunità».

Secondo lei, fare le cose a modo, almeno da noi, può bastare? Cioè, nel mondo globalizzato com' è quello in cui viviamo, raggiungere la soglia dell'80% dei vaccinati in Italia è un traguardo o solo metà della corsa?
«La valutazione deve essere fatta a livello internazionale. O si punta a una potenziale immunità planetaria o non otteniamo niente. Stiamo vaccinando un pianeta, questo dev' essere chiaro. I Paesi più poveri, probabilmente, pagheranno un prezzo maggiore, magari perché da loro la campagna vaccinale partirà in ritardo. Ma se vogliamo tornare alla normalità, lo sguardo deve essere globale».

Quando pensa ci sarà questa copertura mondiale?
«Entro un paio di anni».

Quindi per il 2023 potremmo tornare a prendere un aereo senza grossi problemi?
«In linea teorica sì. Però dipende dall'organizzazione che saremo in grado di mettere in campo e da altri fattori. Anche se ci sono segnali che vanno in questo senso».

Quali?
«Pensi alle Borse di quasi tutti i Paesi occidentali. Oggi tengono un profilo più alto rispetto che a qualche mese fa perché abbiamo capito che possiamo uscire dalla pandemia. Stiamo guardando in avanti».

 

 

E alle spalle cosa ci lasciamo?
«Magari la consapevolezza di aver avuto degli eccessi. Io sono un immunologo clinico, credo sia necessario acquisire la filosofia del sistema immunitario».

Ossia?
«Proteggere l'individuo per proteggere la specie. Se riusciamo in questo, buona parte del problema è ridotto ai minimi termini».

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